La musica è una lingua, a tutti gli effetti, e non solo un linguaggio, come spesso viene definita: ha un suo specifico alfabeto, dispone di un ricco vocabolario ed ha molteplici registri espressivi.

A differenza però di una qualsiasi altra lingua, il suo alfabeto è universale, e, anche se non si conoscono le note (corrispondenti alle lettere), si può comunque capire interamente il messaggio che esse esprimono: è questo il tratto distintivo di un’arte che, in virtù della sua stessa natura, riesce a farsi comprendere da tutti, a prescindere dalla cultura, dalla razza e dalla lingua di chi l’ascolta.

Mentre siamo costretti a leggere Tolstoj e Goethe in italiano, se non conosciamo il russo ed il tedesco, possiamo invece goderci le sinfonie di Ciaikovsky e di Beethoven senza nessun problema, perché non c’è bisogno di alcuna traduzione.

La musica può veramente essere paragonata alla società con le sue gerarchie e con le sue strutture: una società sostanzialmente democratica, che lascia la possibilità ad ogni strumento di esprimersi e di fare ascoltare la propria voce e che parla, come si è visto, una sola lingua.

Nel periodo classico, quello della “forma sonata”, per intenderci, la tonalità e la stessa struttura delle composizioni esercitano una funzione rassicurante ed un punto di riferimento imprescindibile: infatti il tema viene esposto nella tonalità principale del brano (diciamo do maggiore) , poi, dopo una specie di ponte, segue il secondo tema, in un’altra tonalità (ad esempio, sol maggiore) ed una coda che chiude la prima parte. Conclusa l’esposizione, eccoci alla parte centrale,  lo “sviluppo”, a volte in minore,  che viene poi ricondotto alla tonalità di do maggiore, cui segue la riesposizione del primo tema e, finalmente, del secondo tema, questa volta nella tonalità d’impianto del pezzo.

A chiudere il tutto la coda finale.

Mi perdonerete se ho forse usato dei tecnicismi; provvedo quindi a tradurre cercando delle corrispondenti frasi che spero possano rendere bene l’idea.

Tema principale in do maggiore: “Sto bene”. Ponte: “Anche la mia famiglia sta bene”. Secondo tema: “E’ una bella giornata”. Sviluppo: “Purtroppo mi sono ammalato”. Riconduzione al tema principale: “Mi sento meglio”. Riesposizione del tema: “Mi sento di nuovo bene”. Ponte: “Stiamo tutti benissimo”. Secondo tema  nella tonalità del brano: “Mai stati meglio”. Coda: “Buona giornata anche a voi!”

Vogliate perdonare la semplificazione e forse anche la banalizzazione della materia, ma spero di avervi reso l’idea.

Nel secolo dell’Illuminismo, il Principe (la tonalità, la struttura) era il punto di riferimento, la ragione era la risorsa più grande dell’uomo. Nel Settecento, la musica doveva essere l’espressione di ottimismo e di fiducia incrollabile nell’ordine costituito, per questo i brani erano generalmente scritti usando la tonalità maggiore, che infonde gioia e serenità agli ascoltatori.

Raramente i brani di Mozart, tanto per citare uno dei più grandi compositori classici, impiegano la tonalità minore, e quando la prevedono, alla fine c’è sempre qualcosa che suggerisce una soluzione positiva: prendiamo ad esempio il mirabile Concerto in la maggiore K. 488 per pianoforte ed orchestra, malinconico nella sua eterea serenità nel suo primo tempo in la maggiore, elegiaco nel movimento lento centrale in fa diesis minore, ma scintillante nel Finale, ancora in la maggiore, una vera apoteosi di ottimismo e di gioia.

Con il Romanticismo ed i suoi epigoni, e soprattutto in seguito, con l’avvento della dodecafonia, la concezione della musica cambia radicalmente.

Nel Novecento, infatti, la società appare in crisi, alle prese con profonde trasformazioni, e sembra essere alla ricerca di una sua nuova identità. La musica si incammina verso lo stesso percorso.

I nostri giorni sono l’era della trasgressione, dove le “novità” si “inventano” semplicemente operando in modo diametralmente opposto a quello precedente: in pratica si adotta un meccanismo automatico dove la genuinità dell’espressione spesso viene inquinata da tendenze volte solo a sconvolgere lo status quo, ad ogni livello, in modo acritico, generalizzato e, non di rado, immotivato.

La musica contemporanea non fa che interpretare questo spirito sfornando brani che sembrano siano stati pensati per meravigliare e sconcertare il pubblico. Esemplare il brano di John Cage “composto” (si fa per dire) nel 1952: 4’33”, per qualsiasi strumento: una serie di pause scritte in modo complicatissimo e complesso dall’inizio alla fine. L’opera prevede che il musicista si presenti sul palco davanti al pianoforte, o con il suo violino, ad esempio, e che non suoni nemmeno una nota per 4 minuti e 33 secondi esatti. Forse il titolo può essere interpretato così: 4’33” equivalgono a  273 secondi, che rimandano allo zero assoluto: poiché la temperatura di –273,15 °C equivale a zero K.   Cage desidera che l’ascoltatore si concentri sui suoni ed i rumori che sono attorno alla “non musica” che propone, e quasi certamente l’idea nacque dalla trovata dell’amico pittore Robert Rauschenberg, che nel 1951 (quindi l’anno prima di 4’33”) mandò ad una mostra una serie di quadri rigorosamente bianchi, che mutavano a seconda della luce presente negli ambienti che li ospitavano.

Qualcuno ha parlato di una “rivoluzione estetica” di Cage, che, imponendo il silenzio al posto della musica, ha voluto così indicare una nuova via, invece altri, fra cui il sottoscritto, credono che questa operazione sia stata una mera provocazione.

Ma la musica, in questo modo, cessa di essere musica e non svolge più la sua funzione.

E la rinuncia al proprio ruolo o la difficoltà di interpretarlo è proprio una delle caratteristiche della società di oggi: genitori ed insegnanti, ne sanno qualcosa, alle prese con figli e studenti spesso difficili da gestire, ma possiamo anche vedere, come ha anche rilevato Riccardo Muti, direttori d’orchestra che rinunciano alla loro tenuta d’ordinanza, il frac, dimenticando che l’abito, diciamolo pure, un po’ il monaco lo fa, eccome…

E la stessa musica non dovrebbe mai rinunciare alla propria missione: esprimere qualcosa che tutti devono in qualche modo capire, non mi stancherò mai di ripeterlo.

Recentemente il grande pianista Maurizio Pollini, nel corso di un’intervista rilasciata a Sandro Cappelletto del giornale “La Stampa”, alla domanda se fosse preoccupato che la morte di Boulez, legato al pianista da un rapporto di stima e di amicizia, potesse adesso far calare il silenzio sulla sua musica, così risponde: «Il problema è generale. Arnold Schoenberg ha abbandonato la musica tonale più di cento anni fa, però il grande pubblico nel mondo non ha ancora completamente digerito questo passo straordinario, non ha compreso l’espressività di questa musica».  

L’ottimo giornalista incalza e chiede:

“I compositori contemporanei hanno trascurato il pubblico?”

La risposta di Pollini: «L’artista spera sempre di essere compreso, ma non può pensare esclusivamente all’ascoltatore. La sua molla è la ricerca, altrimenti sarebbe un intrattenitore, che pensa non alla grandezza dell’opera, ma al piacere effimero».

Beh, credo proprio che molti compositori contemporanei non si preoccupino minimamente  dell’ascoltatore, su questo ho pochi dubbi.  Vorrei poi precisare che, a differenza di Schoenberg, non sono stati necessari cento anni per fare apprezzare anche al grande pubblico Mozart e Beethoven, che, come ho detto tante altre volte, erano popolarissimi anche quando erano vivi.

Se poi le sale da concerto sono vuote quando il programma prevede musica contemporanea, forse una ragione ci sarà.

Non possiamo pensare che il pubblico sia sempre da “educare”, solo perché dimostra di non apprezzare un certo tipo di musica. Questo concetto implica che quello che l’artista propone debba per forza essere ritenuto frutto di un’eccellenza: questa si chiama “presunzione”, vale a dire, essere certi di qualcosa che invece proprio certo non è…

Sarebbe come se in politica definissimo l’esito delle elezioni frutto di un processo genuinamente democratico solo in caso di vittoria del nostro partito, e non riconoscessimo legittimo un risultato diverso. Ops, ora che ci penso, qualcuno già lo fa…

3 commenti su “Musica e società

  1. Grazie per le illuminanti parole, atte a capire meglio l’arte della Musica. Credo che qualsiasi persona con buoni, veri e profondi sentimenti, anche se priva di una grande cultura, riesca a capire ogni forma d’arte e a valutarla. Per molti secoli l’arte si basava essenzialmente sullo strumento tecnico. Insomma, non era possibile creare arte ed essere diffusa se non si sapeva disegnare o dipingere, leggere uno spartito e comporre, avere il possesso della propria lingua, di una molteplicità di termini e maestria della sintassi.
    Verso la fine del 1800 e l’inizio del 1900, cominciando dalla pittura, diversi prestigiosi maestri cominciarono a sperimentare nuove forme. La sperimentazione si allargò successivamente alle altre arti, e già negli anni 50 e 60 furono immessi sul mercato culturale centinaia e centinaia di sperimentatori retorici, di basso livello, che non avevano sentimenti da trasmettere e camuffavano la loro miseria dietro l’astrattismo, l’informale, la cacofonia e il pastiche linguistico e l’azzeramento di una struttura narrativa. In questo contesto, a parte certi marginali esempi, fortunatamente non abbiamo avuto un’arte sociale, il cui scopo era quello di migliorare la vita dei cittadini. L’arte ha il compito di migliorare e rendere più sensibile l’anima dei cittadini, e il riscontro positivo sulla vita e sul carattere dei cittadini, si ha solo dopo molti decenni o secoli. O forse non si ha mai, perché se una persona apprezza i romanzi di G. G. Marquez, la musica di Albinoni o i film di Godard, ma non riesce a capire la manipolazione dei mass media e della politica, egli è come un bambino reso immaturo dalle favolette dei genitori.

  2. Grandissimo il nostro Maestro Stefano Burbi. Il suo excursus storico sul rapporto tra la musica e la società nel corso della Storia è di grande interesse. Condivido la valutazione che la musica debba avere un valore intrinseco che trascende il tempo e lo spazio e non essere concepita come intrattenimento del pubblico totalmente calata nella specifica contingenza spazio-temporale. Grazie per la scrittura semplice e lo stile affabile che rendono familiari temi complessi.
    Magdi Cristiano Allam

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