Quando i Maestri emigrano

Giovanni Battista Lulli (Firenze28 novembre 1632 – Parigi22 marzo 1687).

Antonio Vivaldi (Venezia4 marzo 1678 – Vienna28 luglio 1741).

Antonio Salieri (Legnago18 agosto 1750 – Vienna7 maggio 1825).

Luigi Cherubini (Firenze14 settembre 1760 – Parigi15 marzo 1842).

Gioachino Rossini (Pesaro29 febbraio 1792 – Passy13 novembre 1868).

Vincenzo Bellini (Catania3 novembre 1801 – Puteaux23 settembre 1835).

I miei amici lettori saranno probabilmente sorpresi e perplessi per questo incipit che sembra più un elenco di epitaffi di famosi musicisti italiani (ne ho scelti solo alcuni, ce ne sarebbero in realtà molti altri); vorrei però che voi concentraste la vostra attenzione su un elemento comune, vale a dire, il luogo dove questi artisti sono passati a miglior vita, sempre fuori dai confini italiani: Parigi, Vienna, Passy, Puteaux.

Giovanni Battista Lulli, nato a Firenze, appena tredicenne, lasciò la casa paterna e si trasferì in Francia, per ricoprire l’incarico di garçon de chambre presso la Duchessa d’Orléans.

Le sue incombenze però non gli impedirono di ultimare gli studi musicali e di iniziare subito dopo la sua carriera di compositore al Palazzo delle Tuileries, residenza della nobildonna. Lulli ebbe così tanto successo che Luigi XIV lo nominò nel 1653 compositeur de la musique in strumentale e nel 1661 surintendant de la musique de la chambre du roi. Il sovrano voleva che le opere rappresentate in Francia fossero prodotte solo da compositori e librettisti francesi e che facessero una spietata concorrenza all’opera italiana: fu così che nel 1661 il musicista fiorentino fu naturalizzato francese con il nome di Jean-Baptiste de Lully.

Diventato ricchissimo ed al culmine del suo successo, il compositore morì in seguito ai postumi di una brutta ferita che si era procurato con il pesante bastone di metallo impiegato allora per battere il tempo per l’orchestra e fu sepolto nella chiesa di Notre-Dame-des-Victoires a Parigi.

Non sempre però il trasferimento all’estero ha portato fortuna ad un musicista italiano.

E’ il caso di Antonio Vivaldi.

La sua fama era giunta anche in Europa, grazie alla stampa de “L’estro Armonico” ad Amsterdam,  e l’imperatore Carlo VI ammirava così tanto il compositore da nominarlo Cavaliere e da invitarlo a Vienna.  Dato che Venezia non lo apprezzava più come prima, preferendogli gli esponenti della scuola napoletana, Vivaldi, nel 1737, cercò prima fortuna a Ferrara.

Il cardinale della diocesi emiliana, però, proibì a Vivaldi di mettere piede in città, adducendo come motivo la sua condotta a suo dire disdicevole, perché il musicista veneziano, pur essendo anche sacerdote, non celebrava mai messa e si faceva accompagnare da donne di dubbia moralità.

Vivaldi provò a ribattere alle accuse, ma senza successo, per cui, privo di prospettive di carriera in Italia e memore dell’invito ricevuto dall’Imperatore Carlo VI, si trasferì a Vienna, certo di trovare protezione e fortuna.

Purtroppo però Carlo VI morì nell’ottobre del 1740, proprio poco dopo l’arrivo del musicista veneziano, che restò così senza alcun tipo di incarico e conseguentemente senza alcuna fonte di reddito. Ridotto in povertà e privo di mezzi per fare ritorno a Venezia,  il musicista fu così costretto a restare a Vienna e, dopo avere tirato avanti per un po’ grazie alla vendita dei suoi manoscritti, morì l’anno dopo e fu ingloriosamente sepolto in una fossa comune allo Spitaller Gottsacker di Vienna. Incredibilmente, la sua musica, oggi popolare in tutto il mondo, restò dimenticata fin quasi alla metà del XX secolo.

Ed eccoci ad Antonio Salieri, ingiustamente ricordato quasi esclusivamente per una presunta rivalità con Mozart e per una sua fantasiosa responsabilità nella morte del Salisburghese.

Sul valore di Salieri, non c’è proprio da discutere: era il musicista di punta alla corte di Giuseppe II e fra i suoi allievi si annoveravano compositori del calibro di Beethoven, Schubert e Liszt.

Da Legnago, sua cittadina natale, in provincia di Verona, si era trasferito a Venezia, dove aveva attirato l’attenzione del Kapellmeister viennese Florian Leopold Gassmann, che, colpito dalle doti musicali ed umane del giovane Salieri, lo aveva invitato a Vienna per formarlo musicalmente.

Alla morte di Gassmann, avvenuta nel 1774, Giuseppe II nominò proprio il ventiquattrenne Salieri come suo successore. Dopo una luminosa carriera e dopo avere avuto tutto il mondo musicale del tempo ai suoi piedi, Salieri, divenuto cieco, passò purtroppo gli ultimi anni della sua vita in ospedale, dove morì nel 1825.

Un altro toscano che scelse di lasciare la madrepatria, dopo Lulli, fu Luigi Cherubini, a cui è intitolato il Conservatorio di Firenze, sua città natale. Il Maestro si stabilì a Parigi nel 1788 per poi trasferirsi a Vienna nel 1805, dove Beethoven lo definì il maggior compositore drammatico vivente.

Purtroppo la guerra e le difficoltà dei teatri austriaci lo costrinsero a fare ritorno a Parigi, dove però non ebbe il successo sperato.

L’autore di “Medea” morì nel 1842 e fu sepolto nel Cimitero del Père-Lachaise.

La carriera del pesarese Gioachino Rossini in Italia fu costellata di grandi successi, come “La Gazza ladra” o “L’Italiana in Algeri”, ma anche di clamorosi fiaschi, fra cui – ci credereste? –  Il Barbiere di Siviglia.  A Vienna, invece, Rossini incontrò sempre il favore del pubblico e ricevette proposte economiche senza dubbio più interessanti rispetto a quelle che gli venivano offerte in Italia.

Dopo la “Semiramide”, rappresentata alla Fenice di Venezia nel 1823, Rossini andò a Londra, dove riportò molti successi, poi partì alla volta di Parigi, dove le sue opere ebbero sempre accoglienze trionfali; per questo gli ultimi lavori del grande pesarese sono in lingua francese, come il “Gugliemo Tell”, rappresentato nel 1829.

Il definitivo distacco dall’Italia di Rossini avverrà però solo più tardi: il pesarese si trasferì prima a Bologna ma dovette fare ritorno in Francia per farsi curare una fastidiosa forma di gonorrea che i medici italiani non erano riusciti a trattare adeguatamente (malasanità italica ante litteram?). Tornato poi a Bologna, Rossini fu protagonista, suo malgrado, di un episodio spiacevole: mentre riceveva in casa il governatore austriaco, il conte Nobili, gli altri invitati che erano presenti all’incontro si allontanarono, evidentemente non gradendo l’affabilità con cui il musicista aveva trattato, per doveri di ospitalità, il rappresentante di uno stato nemico. Allora il Maestro, avvertendo di essere indesiderato nella città emiliana, andò prima a Firenze, dove, malato, non passò degli anni molto felici, per poi, nel 1855, fare definitivamente ritorno in Francia, dove fu accolto trionfalmente e dove la sua salute, inaspettatamente, rifiorì.

In questi anni, la sua casa di Parigi diventò un vero e proprio punto di riferimento per intellettuali, artisti ed esponenti del mondo finanziario.

In estate, invece, Rossini era solito lasciare la capitale e risiedere nella sua villa a Passy, dove, nel 1868, prima di compiere 77 anni, morì a causa di un cancro. I funerali furono solenni e la sepoltura avvenne nel cimitero parigino del Père Lachaise, che accolse le spoglie del musicista solo fino al 1887, anno in cui queste furono traslate nella Basilica di Santa Croce di Firenze su richiesta del governo italiano.

Il catanese Vincenzo Bellini si trasferì a Napoli per studiare musica.

Dopo le fortunate rappresentazioni alla Scala de “Il Pirata” (1827) e “La Straniera” (1829), Bellini fu deluso dalla fredda accoglienza riservata alla sua “Zaira”, messa in scena a Parma. Dopo l’insuccesso della Beatrice di Tenda alla Fenice di Venezia, nel 1833, il compositore siciliano andò a Parigi, dove felici incontri con grandi compositori europei dell’epoca, come Fryderyk Chopin, arricchirono il suo linguaggio musicale. Fu la svolta: peccato che la sua carriera, che stava avendo un grande successo, fu interrotta dalla morte nel 1835, quando il maestro non aveva ancora compiuto 34 anni. Anche Bellini, come Rossini, fu sepolto nel cimitero Père Lachaise, dove rimase fino al 1876, quando la salma fu traslata nel Duomo di Catania.

Credete che oggi le cose vadano diversamente? Niente affatto: nemo propheta in patria vale sempre, anche se, come abbiamo visto, in qualche caso solo il tempo (e non il luogo) ha fatto giustizia.

Dobbiamo però constatare che, salvo qualche fortunata eccezione, l’Italia cade spesso nell’errore di non riconoscere i suoi figli migliori. E li trascura, salvo poi, una volta perduti, esaltarli e rimpiangerli con calde lacrime. Di coccodrillo.

1 commento su “Quando i Maestri emigrano

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