Una volta, durante una mia conferenza sulla Storia della Musica, qualche tempo fa, chiesi al mio attento pubblico di fornirmi la ragione per cui era stata “inventata” l’Ouverture, che, come sapete, introduce sempre un’opera.
Le risposte sono state varie e, devo dire, piuttosto interessanti, anche se del tutto fantasiose.
Ve ne riporto alcune.
“L’ouverture è stata inventata per creare un’introduzione al dramma e per portarci nell’atmosfera della rappresentazione”.
“La sinfonia introduttiva serve a presentare dei temi che sono ricorrenti nell’opera”.
“L’Ouverture è stata creata come una specie di riassunto musicale dell’assunto drammatico”.
Nessuna di queste spiegazioni è esatta.
Amici lettori, volete sapere perché è nata la sinfonia introduttiva ad un’opera?
E volete sapere anche perché, soprattutto nel Settecento, l’Ouverture, come incipit, ha solitamente un robusto “forte” orchestrale?
La risposta vi parrà sorprendente: per fare stare zitti gli spettatori e per annunciare che l’opera stava per iniziare. Tutto qua.
Ma come, direte voi, il pubblico del Settecento era così maleducato ed indisciplinato?
Nel secolo dei Lumi, il teatro era un luogo caratterizzato da un’atmosfera molto più simile a quella di uno stadio, e, prima della rappresentazione, perfino durante i gorgheggi dei cantanti, il pubblico mangiava e beveva tranquillamente, parlando ad alta voce senza nessun tipo di soggezione o di rispetto nei confronti dell’opera… In sala regnava una tale confusione, che solo un perentorio “forte” di un “tutti” orchestrale poteva mettere a tacere l’irrequieto pubblico per permettere agli artisti di esibirsi, anche se poi, nel corso della rappresentazione, non mancavano mai momenti in cui, a scena aperta, gli spettatori manifestavano senza freni il loro entusiasmo o sfogavano sonoramente la loro delusione. Infatti, durante la recita, capitava spesso che due fazioni, che parteggiavano per questo o quel cantante, si prendessero a male parole, perché c’era chi esaltava il proprio beniamino e fischiava il suo rivale, in una guerra senza esclusione di colpi.
Insomma, come avrete capito, niente a che vedere con i teatri di oggi, dove, nel silenzio assoluto, anche un colpetto di tosse rimbomba come una cannonata ed una mezza frase sussurrata al vicino viene censurata con occhiate che vorrebbero incenerire l’incauto disturbatore.
Vero è che l’Ouverture, con il tempo, diventò effettivamente un’introduzione al clima drammatico dell’opera, ma le sue origini furono senza dubbio di carattere meramente ed esclusivamente pratico, senza alcuna implicazione aggiuntiva.
Ci sono altre curiosità che ci fanno capire quanto il mondo della cultura sia davvero più vicino a noi di quanto pensiamo.
Ogni musicista, ogni attore, ogni uomo di spettacolo, ha paura di “fare fiasco”.
Ma perché questa curiosa espressione?
Si dice che il famoso attore della Commedia dell’Arte Domenico Biancolelli, interprete di Arlecchino, fosse un portento ad improvvisare monologhi prendendo spunto da qualsiasi oggetto portasse in scena o si trovasse già a teatro.
Un giorno, però, l’artista si presentò sul palcoscenico con un fiasco, e purtroppo, non fu capace di divertire il pubblico con la sua improvvisazione su tale soggetto, e “fiasco”, da allora, diventò sinonimo, appunto, di insuccesso.
Volete sapete perché si dice “Merda! Merda! Merda!” ad un attore o ad un musicista prima di una rappresentazione teatrale o prima di un concerto? (scusate il turpiloquio, che non amo, ma non posso usare sinonimi, visto che questa è letteralmente la formula beneaugurante nel mondo dello spettacolo). Anche in questo caso la spiegazione è semplice.
Nel Settecento e nell’Ottocento il pubblico arrivava a teatro con le carrozze trainate da cavalli: la quantità di escrementi prodotta dagli equini e lasciata sulla strada era direttamente proporzionale al numero dei mezzi parcheggiati fuori dal teatro e, conseguentemente, anche a quello degli spettatori…
In pratica, con questa colorita espressione, si augurava il pienone in sala alla recita o al concerto in programma.
Veniamo ad un’altra curiosità. Come si sa, mai vestirsi di viola a teatro. Superstizione?
Nemmeno per sogno, ragioni di ordine pratico e storico: il viola era (ed è tuttora) il colore dei paramenti sacri usati durante la Quaresima, durante la quale, nel Medioevo, era proibito ogni spettacolo pubblico. Tale restrizione era ovviamente mal vista da tutti gli artisti, che restavano disoccupati per tutta la durata della ricorrenza religiosa, ben 40 giorni, con gravi ripercussioni economiche; così il viola diventò per gli attori praticamente sinonimo di impossibilità di esibirsi e l’avversione a tale colore fu così radicata che anche oggi nessun artista tollererà mai un indumento viola sul palcoscenico e, possibilmente, nemmeno in platea… (le signore sono avvertite…)
Ed ora facciamoci una domanda: siamo certi che la Cultura (con la C maiuscola) è solo ad appannaggio di pochi ed è regolata da complessi meccanismi astrusi che appartengono ad un ipotetico mondo delle idee?
Non è che forse spesso le spiegazioni di un fatto culturale siano piuttosto da ricercare nella pratica e nella quotidianità, dato che la cultura è (e dovrebbe essere ritenuta) un elemento caratterizzante della società e per questo familiare ad ognuno di noi, senza esclusioni?
Spesso, quando parlo di musica con i non addetti ai lavori (che sono la maggioranza, ovviamente), i miei interlocutori, nemmeno si fossero messi d’accordo, esordiscono sempre con un preoccupato: “Io non me ne intendo di musica, ma….”, e finalmente, dopo mille esitazioni, esprimono il loro pensiero, quasi sempre logico e sensato, nonostante la premessa.
Sembra quasi che molti pensino la cultura come roba per pochi iniziati. Errore gravissimo.
L’arte è semplice, ed è fatta di cose semplici, perché ha un solo referente: se stessa.
Una volta un giovane direttore d’orchestra, durante una prova del celebre poema sinfonico “La Moldava”, di Bedrich Smetana, che descrive con la musica, appunto, il corso del fiume attraverso il territorio della Boemia, si fermò ad un certo passaggio, evidentemente poco soddisfatto della sua esecuzione, e dal podio cominciò a descrivere ai musicisti l’atmosfera che voleva ricreare con la sua interpretazione di quelle battute, pensando così di aiutarli e di ispirarli.
Dopo avere sentito per 10 minuti buoni il maestro parlare di uccelli che cantavano e rivoli d’acqua che gorgogliavano, il primo violino si alzò, spazientito, e sbottò:
“Ma allora, Maestro, insomma, qui vuole un piano o un forte?”
Sì, perché la musica è fatta soprattutto di musica, e a volte basta poco per capirla e per esprimerla. Niente di complicato. Niente di impossibile. Credetemi.
Le risposte sono state varie e, devo dire, piuttosto interessanti, anche se del tutto fantasiose.
Ve ne riporto alcune.
“L’ouverture è stata inventata per creare un’introduzione al dramma e per portarci nell’atmosfera della rappresentazione”.
“La sinfonia introduttiva serve a presentare dei temi che sono ricorrenti nell’opera”.
“L’Ouverture è stata creata come una specie di riassunto musicale dell’assunto drammatico”.
Nessuna di queste spiegazioni è esatta.
Amici lettori, volete sapere perché è nata la sinfonia introduttiva ad un’opera?
E volete sapere anche perché, soprattutto nel Settecento, l’Ouverture, come incipit, ha solitamente un robusto “forte” orchestrale?
La risposta vi parrà sorprendente: per fare stare zitti gli spettatori e per annunciare che l’opera stava per iniziare. Tutto qua.
Ma come, direte voi, il pubblico del Settecento era così maleducato ed indisciplinato?
Nel secolo dei Lumi, il teatro era un luogo caratterizzato da un’atmosfera molto più simile a quella di uno stadio, e, prima della rappresentazione, perfino durante i gorgheggi dei cantanti, il pubblico mangiava e beveva tranquillamente, parlando ad alta voce senza nessun tipo di soggezione o di rispetto nei confronti dell’opera… In sala regnava una tale confusione, che solo un perentorio “forte” di un “tutti” orchestrale poteva mettere a tacere l’irrequieto pubblico per permettere agli artisti di esibirsi, anche se poi, nel corso della rappresentazione, non mancavano mai momenti in cui, a scena aperta, gli spettatori manifestavano senza freni il loro entusiasmo o sfogavano sonoramente la loro delusione. Infatti, durante la recita, capitava spesso che due fazioni, che parteggiavano per questo o quel cantante, si prendessero a male parole, perché c’era chi esaltava il proprio beniamino e fischiava il suo rivale, in una guerra senza esclusione di colpi.
Insomma, come avrete capito, niente a che vedere con i teatri di oggi, dove, nel silenzio assoluto, anche un colpetto di tosse rimbomba come una cannonata ed una mezza frase sussurrata al vicino viene censurata con occhiate che vorrebbero incenerire l’incauto disturbatore.
Vero è che l’Ouverture, con il tempo, diventò effettivamente un’introduzione al clima drammatico dell’opera, ma le sue origini furono senza dubbio di carattere meramente ed esclusivamente pratico, senza alcuna implicazione aggiuntiva.
Ci sono altre curiosità che ci fanno capire quanto il mondo della cultura sia davvero più vicino a noi di quanto pensiamo.
Ogni musicista, ogni attore, ogni uomo di spettacolo, ha paura di “fare fiasco”.
Ma perché questa curiosa espressione?
Si dice che il famoso attore della Commedia dell’Arte Domenico Biancolelli, interprete di Arlecchino, fosse un portento ad improvvisare monologhi prendendo spunto da qualsiasi oggetto portasse in scena o si trovasse già a teatro.
Un giorno, però, l’artista si presentò sul palcoscenico con un fiasco, e purtroppo, non fu capace di divertire il pubblico con la sua improvvisazione su tale soggetto, e “fiasco”, da allora, diventò sinonimo, appunto, di insuccesso.
Volete sapete perché si dice “Merda! Merda! Merda!” ad un attore o ad un musicista prima di una rappresentazione teatrale o prima di un concerto? (scusate il turpiloquio, che non amo, ma non posso usare sinonimi, visto che questa è letteralmente la formula beneaugurante nel mondo dello spettacolo). Anche in questo caso la spiegazione è semplice.
Nel Settecento e nell’Ottocento il pubblico arrivava a teatro con le carrozze trainate da cavalli: la quantità di escrementi prodotta dagli equini e lasciata sulla strada era direttamente proporzionale al numero dei mezzi parcheggiati fuori dal teatro e, conseguentemente, anche a quello degli spettatori…
In pratica, con questa colorita espressione, si augurava il pienone in sala alla recita o al concerto in programma.
Veniamo ad un’altra curiosità. Come si sa, mai vestirsi di viola a teatro. Superstizione?
Nemmeno per sogno, ragioni di ordine pratico e storico: il viola era (ed è tuttora) il colore dei paramenti sacri usati durante la Quaresima, durante la quale, nel Medioevo, era proibito ogni spettacolo pubblico. Tale restrizione era ovviamente mal vista da tutti gli artisti, che restavano disoccupati per tutta la durata della ricorrenza religiosa, ben 40 giorni, con gravi ripercussioni economiche; così il viola diventò per gli attori praticamente sinonimo di impossibilità di esibirsi e l’avversione a tale colore fu così radicata che anche oggi nessun artista tollererà mai un indumento viola sul palcoscenico e, possibilmente, nemmeno in platea… (le signore sono avvertite…)
Ed ora facciamoci una domanda: siamo certi che la Cultura (con la C maiuscola) è solo ad appannaggio di pochi ed è regolata da complessi meccanismi astrusi che appartengono ad un ipotetico mondo delle idee?
Non è che forse spesso le spiegazioni di un fatto culturale siano piuttosto da ricercare nella pratica e nella quotidianità, dato che la cultura è (e dovrebbe essere ritenuta) un elemento caratterizzante della società e per questo familiare ad ognuno di noi, senza esclusioni?
Spesso, quando parlo di musica con i non addetti ai lavori (che sono la maggioranza, ovviamente), i miei interlocutori, nemmeno si fossero messi d’accordo, esordiscono sempre con un preoccupato: “Io non me ne intendo di musica, ma….”, e finalmente, dopo mille esitazioni, esprimono il loro pensiero, quasi sempre logico e sensato, nonostante la premessa.
Sembra quasi che molti pensino la cultura come roba per pochi iniziati. Errore gravissimo.
L’arte è semplice, ed è fatta di cose semplici, perché ha un solo referente: se stessa.
Una volta un giovane direttore d’orchestra, durante una prova del celebre poema sinfonico “La Moldava”, di Bedrich Smetana, che descrive con la musica, appunto, il corso del fiume attraverso il territorio della Boemia, si fermò ad un certo passaggio, evidentemente poco soddisfatto della sua esecuzione, e dal podio cominciò a descrivere ai musicisti l’atmosfera che voleva ricreare con la sua interpretazione di quelle battute, pensando così di aiutarli e di ispirarli.
Dopo avere sentito per 10 minuti buoni il maestro parlare di uccelli che cantavano e rivoli d’acqua che gorgogliavano, il primo violino si alzò, spazientito, e sbottò:
“Ma allora, Maestro, insomma, qui vuole un piano o un forte?”
Sì, perché la musica è fatta soprattutto di musica, e a volte basta poco per capirla e per esprimerla. Niente di complicato. Niente di impossibile. Credetemi.