La centralità della famiglia nel contesto della società italiana è stata una roccaforte per secoli, come dimostrato anche dalla tutela speciale ripetuta nella Costituzione del 1947, la quale, all’art. 29, recita «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
La famiglia regolamentata attraverso l’Istituto del Matrimonio non è stata soltanto improntata al modello cattolico, ma a dieci secoli di Diritto Romano.
Il modello di famiglia, che era ancora fortemente condiviso nel Dopoguerra, era quello che si ispirava all’insegnamento della Chiesa, cioè eterosessuale, aperto alla vita, basato sulla fedeltà e sull’obbedienza, da parte dei figli.
Tutto questo comincia ad incrinarsi con la rivoluzione culturale del Sessantotto e con il conseguente avvento del femminismo. Da quel momento in poi le grandi forze ideologiche postbelliche hanno iniziato un vero e proprio processo di scristianizzazione sociale e di conseguenza una sistematica disgregazione dell’istituto familiare.
Un poco alla volta. Giorno per giorno, senza tanto clamore.
Mattone per mattone, è iniziata la decostruzione delle colonne portanti della famiglia. Il segno dei tempi lo si comincia ad osservare, in Italia, con la Legge n. 898, del 01.12.1970, sul DIVORZIO, confermata nel 1974, a seguito del referendum.
E’ da questo momento che il matrimonio non è più per sempre.
La combattuta introduzione di questa legge sembrò una grande conquista di civiltà sociale, rispetto al precedente antico regime di indissolubilità del matrimonio.
L’istituto del divorzio, inizialmente avversato dal mondo cattolico, fu alla fine accettato pensandolo riservato solo ai casi eccezionali di effettiva difficoltà coniugale, di emergenza familiare e di grave pregiudizio per la prole.
In realtà il divorzio è stato presto snaturato dalla sua originaria funzione di estremo rimedio. Esso, oggi, ha obiettivamente capovolto l’atteggiamento della coniugalità, ormai vissuta in maniera consumistica, come un esperimento “usa e getta”, dove non vi è più spazio per l’impegno, il sacrificio e la responsabilità familiare, della quale, anzi, è possibile liberarsi con sempre maggiore facilità.
Il divorzio non è più da anni una eccezione, ma è diventata quasi, come è noto, la tappa fisiologica di ogni matrimonio. Ebbene, dal 1970 in avanti, abbiamo assistito al tentativo, finora ben riuscito, di disgregazione dell’istituto naturale della famiglia.
Eppure, non dimentichiamolo, alla famiglia è sempre stato riconosciuto il «compito sociale» di costituire la cellula accogliente della persona e dei futuri cittadini.
Per questo, con forza, coraggio e convinzione, ci dobbiamo riappropriare dei valori fondanti che, attraverso il matrimonio e la famiglia, rendono forte la società.
Questo è il momento di rinnovare il significato e la forza originari dell’istituto del matrimonio, da privilegiare, quale luogo insostituibile di crescita umana e futuro della società. Fino a quando la famiglia sarà “socialmente” un bene e fino a quando ci prenderemo tutti carico di mantenere saldi certi “valori non negoziabili”, la famiglia naturale, che esiste per dare vita e sostegno alle generazioni future è, e resterà, il nucleo sociale fondamentale, da proteggere e salvaguardare, con ogni mezzo.
Lo ammetto: sono innamorato degli anni sessanta, delle sue cromature psichedeliche, della sua soffice colonna sonora che mi ha accompagnato per sessant’anni sino a diventare la ninna nanna preferita di mia figlia, della sua capacità di elevare l’umanità al di là dell’ultima frontiera immaginabile in quello spazio dove “nessun uomo è mai giunto prima”. Ma, soprattutto, sono innamorato di ciò che l’eredità degli anni sessanta avrebbe potuto rappresentare per tutti noi, nel nuovo millennio, se gli “Swinging Sixties” avessero potuto portare a compimento il loro disegno sociale, politico e culturale. Un disegno nel quale, tra le altre cose, la donna regalava alla propria sessualità la stessa libertà di sperimentazione attribuita all’uomo, senza venir meno alla sua funzione procreatrice, ma, al contrario, valorizzando se stessa e la sua prole, in una dimensione familiare nella quale la coppia non era una rappresentazione di ipocrita sacralità ma una scelta legata al sentimento e non alla necessità. Evitiamo di attribuire al “sessantotto” una declinazione negativa: il “Nuovo Ordine Mondiale” era già presente a quel tempo e, alla stregua di quello che venne compiuto ai danni dei Pellerossa – decimati più dall’alcol che veniva loro donato dagli invasori bianchi, che dalle guerre – ha distrutto quella generazione di sognatori grazie all’immissione massiccia di droghe e stupefacenti. Il danno principale alla famiglia ed alla natalità ha origine in quella sfera di azione sintetizzata da Andy Warhol nella famosa frase “in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti”. Oggi, ognuno di noi, al di là della propria attitudine, ha la sua visibilità, coatta o secchiona che sia. E allora spazio ai quiz milionari per esperti del nulla, largo ai reality show con protagonisti provenienti “dall’Accademia dè noi artri”, e largo alle “curvy” reginette di bellezza mentre, nel contempo, si combatte l’obesità come male sociale. Ognuno di noi ha costruito un avatar di se stesso in grado di poter fare qualsiasi cosa, cadendo nell’equivoco di crederci veramente. Ed ecco che la priorità diventa la “storia” sul social in voga, la foto ologrammata, l’immagine sensuale per catalizzare l’attenzione. La natalità diventa un intoppo sociale, un ostacolo da evitare. Quando, però, il gioco si spezza, svanisce l’avatar e riemerge la cruda realtà, con la benedizione dell’industria farmaceutica che, alla stregua di imbonitori, promette la salvezza sotto forma di tranquillanti dai quali dipendere per tutta la vita. Guardiamoci allo specchio, accettiamoci per quello che siamo e riprendiamoci i sogni che abbiamo abbandonato alla fine del 1968 per costruire il futuro per il quale gli eroi di quel decennio, hanno donato la vita nel desiderio di lasciarci un mondo migliore.
Alex Di Gregorio ci invita a riconsiderare la valutazione generalmente negativa del Sessantotto. Ci dice che il male non è stato nella voglia di essere se stessi come protagonisti della propria vita, ma un fiume di droga che inquinò e trascinò in una deriva suicida quel sogno. Ci dice che il male non è stata l’affermazione della dimensione dell’essere evidenziando la propria specificità, ma bensì il sopravvento della dimensione dell’apparire esibendo un copione imposto dal sistema. Resta il fatto che il Sessantotto ha rappresentato una rottura con la tradizione fatta di certezze e di consuetudini che, nel bene e nel male, hanno garantito alla nostra società di crescere demograficamente, di prosperare economicamente, salvaguardando un modello educativo che si traduceva in rispetto del prossimo e solidarietà comunitaria. Grazie Alex per il tuo spunto di riflessione. Magdi Cristiano Allam
Alex, si vede che sei innamorato degli anni sessanta. Voglio lasciarti in questo idillio, perchè è bello avere degli eroi, coltivare degli ideali, fa bene all’anima credere in certi valori, pensando che in un certo luogo ed in un certo tempo siano stati scoperti, perseguiti e conquistati.
Io che credo di avere vissuto, solo per una questione anagrafica, quegli anni più da vicino, purtroppo non ho mai visto concretezza in quegli ideali professati a gran voce ed in quegli eroi, ammirati da tutti i ventenni. Che la donna abbia ottenuto la libertà sessuale di quella “sperimentazione attribuita all’uomo” e che non abbia fatto con ciò “venir meno la sua funzione procreatrice, ma, al contrario, valorizzando se stessa e la sua prole” a me non risulta, purtroppo. Mi è sembrato piuttosto che quella generazione che tu stesso definisci di sognatori abbia inseguito delle favole, delle astrazioni, delle utopie non realizzate e non realizzabili. Del resto, il fatto stesso che quei giovani si siano fatti fagocitare dalla “immissione” di droghe e di stupefacenti la dice lunga su quanto fossero deboli e facilmente manipolabili i loro sogni… forse, allora, che anche lo stesso mito del sessantotto non sia stato altro che il tassello iniziale del Nuovo Ordine Mondiale? Insieme a te, voglio sperare di no.
L’analisi di Stefania è impietosa ma realistica, purtroppo!
La radice di questo decadimento risiede, soprattutto, nella rinuncia progressiva da parte delle famiglie di rivendicare la centralità del proprio ruolo educativo, nell’ambito del quale può essere veicolata la sua importanza quale nucleo fondante della società, se si mostra salda nell’affermazione e nella realizzazione dei valori non negoziabili, massima espressione della nostra umanità.
Le statistiche parlano chiaro. La quantità di matrimoni che funzionano rappresenta una percentuale minoritaria. Oramai la norma è intendere il matrimonio una condizione di vita provvisoria. Non ho mai creduto che, in sé, la possibilità accordata, in potenza, di divorziare fosse la motivazione alla base del fallimento dei legami e dello sfaldamento delle famiglie, ho sempre pensato che le ragioni più profonde fossero da cercare nella sfera dell’educazione, della cultura e dei valori personali. Bisogna tuttavia prendere atto dei fatti. Hai ragione Stefania. Grazie per questa tua nuova rubrica.
Ringrazio Magdi e ringrazio la Casa della Civiltà per offrirci una così preziosa opportunità di osservazione, discussione e approfondimento sui temi più importanti della nostra attualità. In particolare, l’argomento della famiglia è intrinsecamente collegato, nella sua profonda crisi, alla denatalità, alla rinuncia a procreare e, per esteso, alla estinzione della nostra società. Vale la pena di soffermarsi ad analizzare quello che sta accadendo, perchè sta accadendo e da dove ha avuto origine. Capiremo che tutto quanto ruota al tema famiglia è stato frutto di un lento, progressivo e malefico lavaggio delle menti, che ha demolito ad uno ad uno i capisaldi delle nostre millenarie tradizioni, dei nostri valori e della nostra cultura. Ma basterà rendersene conto, risvegliarsi dall’ipnosi collettiva in cui ci hanno ridotto, riappropriarci del nostro patrimonio culturale, umano ed etico, per salvarci dalla completa soccombenza e dalla estinzione.
Non prevalebunt.
cara Stefania leggerò con interesse i tuoi articoli che metterai sulla rubrica ti ringrazio per l’impegno.
un caro saluto.
Grazie Stefania Celenza per aver preso l’iniziativa di inaugurare, nel sito della Casa della Civiltà, una tua rubrica “Famiglia e Natalità” che affronta il problema in assoluto più importante per noi italiani e per l’Italia. Mi riferisco al tracollo demografico che ci ha condannato all’estinzione come popolazione. Senza figli si muore. E con noi muore la nostra civiltà dalle radici ebraico-cristiane e muore la nostra Nazione italiana che per millenni ha ispirato l’amore patrio.
Ebbene la famiglia è il perno della costruzione sociale e della rigenerazione della vita.
Stefania Celenza è avvocato del Foro di Firenze, matrimonialista, specializzata in Diritto della Famiglia. Ciò che scrive non è solo frutto di una sua profonda conoscenza accademica e professionale, ma è soprattutto frutto di un vissuto. Occuparsi da legale dei drammi familiari, della separazione e dei divorzi, significa condividere la sofferenza interiore e le vicissitudini sociali di sempre più coppie che, come spiega Stefania, concepiscono il matrimonio come un esperimento, un matrimonio “usa e getta”.
È indubbio che, proprio perché senza figli moriremo tutti come società, civiltà, Nazione e Stato, se vogliamo rinascere dobbiamo ripartire dal rimettere al centro la famiglia naturale e la cultura della vita.
Vi invito a leggere attentamente e a commentare le riflessioni che Stefania Celenza ci offrirà, e di ciò la ringraziamo, a cadenza settimanale. Grazie a voi tutti.
Magdi Cristiano Allam
grazie Magdi per questa opportunità