STEFANO BURBI: “Riflessioni del compositore”

Per legge si possono far passare per civili e necessarie al bene comune le piú tremende aberrazioni, per questo ciò che è legale non è automaticamente conforme al diritto naturale o giusto. Basti pensare che fino agli anni Sessanta, negli USA, era perfettamente legale la segregazione razziale, che fu abolita solo dopo molte dure ed estenuanti lotte.
I fanatici del motto “le regole sono regole ” , a dispetto della loro assurdità, dovrebbero ripassare la storia, anche molto recente. Forse capirebbero.

L’essere umano si abitua a tutto, anche alle condizioni di vita più miserabili, ai regimi più sanguinari, alle assurdità più evidenti e se si convincerà che tutto sia fatto per il suo bene, penserà di avere il benessere, crederà di avere scelto i suoi governanti, sarà persuaso di seguire delle regole ragionevoli, anche se i fatti smentiscono tutto questo.
Non c’è una logica che possa sconfiggere l’illogicità istituzionalizzata a sistema di vita, soprattutto in un regime di relativismo morale ed etico dove si è capaci solo di privilegiare una parte dei cittadini.
Nel mondo più civilizzato, il dissenso non è più soffocato nel sangue o con la prigione, ma con l’oblio e con la cancellazione della memoria. Gli artisti, che in teoria (ma solo in teoria) dovrebbero essere i fari della libertà e della critica, si assoggettano al potere e sono, paradossalmente, i più condizionati, perché sanno benissimo che il non allineamento porta come conseguenza la loro sparizione dal mondo dello spettacolo e della cultura e talvolta nemmeno la ritrattazione serve al loro reintegro.
Ed in un mondo sempre più incapace di riconoscere il vero talento e l’autentica bellezza, anzi, sempre più incline a promuovere il suo esatto contrario, un artista dipende solo dal mainstream e dal potere di cui diventa, più o meno consapevolmente, il megafono più fragoroso.
La bellezza ci salverà solo se sapremo riconoscerla e se sapremo proteggere i suoi sacerdoti.

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