FABIO MARCO FABBRI: “Iran, non si placa il vento di protesta”

Sono stati nel sangue i circa due mesi trascorsi dalla morte di Mahsa Amini. E oggi qual è la situazione in Iran? Che ruolo hanno i Tribunali della Rivoluzione? Il Paese dove governano gli ayatollah è quotidianamente scosso dalle manifestazioni di protesta: donne e uomini combattono con le “armi della libertà” contro le armi convenzionali della polizia morale e delle forze dell’ordine. I dissensi continuano a essere duramente repressi dal Governo e la pseudo-giustizia iraniana prosegue nel sentenziare assidue condanne a morte, variamente rese note.

Mahsa Amini, 22enne curda, dopo essere stata arrestata dalla polizia morale con l’accusa di avere violato il codice di abbigliamento della Repubblica islamica, indossando il velo in modo scorretto, il 16 settembre, tre giorni dopo il suo arresto, è deceduta a seguito delle violenze inflitte dagli aguzzini “seriali” di turno. Da quel momento, migliaia di ragazze hanno tolto l’hijab, infrangendo sistematicamente il codice di abbigliamento vigente nella Repubblica islamica, incorrendo quindi nei reati previsti. Ma essendo una “trasgressione di massa”, i guardiani del popolo della Rivoluzione, ovvero i “sepāh-e pāsdārān-e enghelāb-e eslāmi”, non potendo ancora fare arresti di massa si limitano ad accanirsi solo su alcune persone. Comunque, ormai la società è incendiata. Dall’ultimo rapporto (pubblicato la settimana scorsa) dell’Ihr, Iran Human Rights, una ong locale, risulta che complessivamente in Iran sono stati uccisi dalle forze di sicurezza oltre trecentoquaranta manifestanti, tra questi poco meno di trenta donne e oltre quaranta minori.

Tuttavia, l’alto “pedaggio” di sangue non ferma né donne né uomini, che insistono nel promuovere comizi. Secondo l’Irna, l’Agenzia di stampa della Repubblica iraniana, oltre cento persone, comprese una ventina di donne, la settimana passata sono state tratte in arreso nella provincia di Fars, nel sud del Paese. Le motivazioni di questi arresti si basano sulle azioni che i manifestanti intraprendono per palesare le loro sofferenze, come il lancio di pietre contro le forze di sicurezza, il danneggiamento di proprietà pubbliche e il blocco di importanti arterie stradali. Inoltre, da foto pubblicate su vari social, si notano manifestazioni, anche notturne, nella città di Izeh, nel sud-ovest iraniano e ad Hamedan, a ovest. Ma anche nelle città curde di Boukan e Kamyaran, nel nord-ovest e di Shiraz, nella parte meridionale. I filmati condivisi dall’account Twitter 1500tasvir mostrano negozi chiusi nel bazar di Teheran e gruppi di persone che si raccolgono per gridare slogan antigovernativi. Il canale trasmette anche un video, girato di notte a Teheran, dove i manifestanti gridano “combatteremo! Moriremo! Riavremo l’Iran!”: frasi che vengono pronunciate durante i sit-in di protesta. Le risposte delle forze di sicurezza si moltiplicano: spari ad altezza umana nelle metropolitane, spari durante i blitz a bordo di motociclette lungo strade affollate. In più, colpiscono chiunque, anche chi è al margine delle aree dove si manifesta, spandendo terrore e morte.

Secondo fonti Hir, i manifestanti, una volta arrestati, durante gli interrogatori non hanno diritto a essere assistiti dagli avvocati. In questi frangenti subiscono torture e vessazioni psicologiche, al fine di estorcere confessioni tramite le quali vengono condannati dai “Tribunali rivoluzionari”, che applicano pene esemplari estreme. Il rischio, sempre secondo fonti Hir molto credibili, è che tali modalità oppressive crescano con l’aumentare delle proteste. Ciò potrebbe condurre i Tribunali a sentenziare sempre più spesso condanne a morte. Un tracciato, questo, che potrebbe portare ad esecuzioni di massa. Secondo i dati forniti dalla famigerata giustizia iraniana, in quasi due mesi sono state incriminate oltre duemila persone: circa la metà solo nella capitale. Così, alcuni giorni fa un tribunale rivoluzionario di Teheran ha pronunciato una prima condanna a morte legata alle “rivolte”. Il “criminale” è giudicato colpevole di disturbo dell’ordine pubblico, di aver incendiato un edificio governativo, di essere stato artefice di una cospirazione contro la sicurezza nazionale. Ma, soprattutto, di essere “nemico di Dio” e di “corruzione sulla Terra”. I giudici iraniani qualificano l’atteggiamento dei manifestanti come una “azione di rivoltosi” sobillati dagli Usa e dai sionisti. L’agenzia dell’Autorità giudiziaria Mizan, ha confermato mercoledì scorso di avere decretato la pena di morte a tre persone, accusate di un coinvolgimento nelle manifestazioni, portando così a cinque il numero delle condanne a morte da domenica 13 novembre.

Ma cosa sta accadendo all’Islam iraniano e non solo? Queste proteste sono dirette verso la ricerca di una libertà interdetta nei dettami dell’Islam, in questo caso rappresentato dagli ayatollah. Come in tutte le tradizioni religiose monoteiste, la teologia ha Dio come oggetto, che nella cultura islamica costituisce una delle colonne della conoscenza religiosa. La “struttura della sapienza religiosa” è completata dal fiqh, il diritto coranico, dall’usûl al-fiqh, fondamenti del diritto, dal tafsîr, esegesi coranica. La conoscenza della lingua araba e la teologia politica completano questo “sistema”. Oggi pare che questi pilastri teologici stiano subendo delle erosioni, scalfiti dal desiderio di libertà. Le religioni hanno il loro tempo di durata, sono scomparsi culti persistiti per millenni. Ma la fede per la Libertà è eterna.

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