DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Istintualità, estemporaneità e mondo riflesso: le omologazioni che appiattiscono la ragione”  

La società attuale esalta la dimensione della momentaneità. Le massime che danno indicazioni su come essere più felici paiono suggerire che la vita sia da vivere in maniera estemporanea, senza pensarci troppo. Si richiede la liberalizzazione del fare senza l’anticipazione propedeutica del pensiero e di agire senza smarrirsi, a priori, su valutazioni in merito alla positività o negatività dei vari propositi a fare e collezionare esperienze.

La filosofia dell’avere rimorsi piuttosto che rimpianti, insomma. Va di pari passo, questa tendenza, con una generale svalutazione della memoria e del passato. Conoscere l’esperienza di altri, prima, non risulta più così necessario; partire dal passato per acquisirne una conoscenza che determini un atteggiamento coscienzioso non ha, in pratica, un ruolo determinante.

L’impressione è quella di trovarsi in una realtà che è una sorta di perpetuo presente, in cui esserci e da cui sparire immediatamente dopo. E nella quale finanche le convinzioni, i pareri, gli entusiasmi, i sentimenti e, di conseguenza, i rapporti interpersonali, sono estremamente volubili, passano facilmente da un estremo all’altro, sono soggetti a una incontrollata moltitudine di condizionamenti che fanno capo all’ambiente, all’esteriorità e alla superficialità banalizzante delle tendenze e delle mode.

Si sta decretando il valore subordinato del pensiero rispetto all’azione perché si è facilmente abbagliati dalla convinzione che impiegare tempo ed energie nelle attività mentali, magari in solitudine, appartati dal contatto con gli altri, allontani dalla realtà.  Il che appiattisce, toglie individualità ai singoli.

Se l’uomo non riconosce più valore all’atto meditativo che anticipa l’azione, si determina un’oggettività uniformante. Tutti vengono legittimati ad agire seguendo slanci istintivi e si afferma, come fattore propulsivo all’agire pratico, l’essenzialità dei bisogni.

Essere tutti uguali, in una realtà che tende verso il basso e verso l’essenzialità, è da leggere come un segnale preoccupante di degradazione antropologica, non come un valore.

È di Heidegger la chiara sottolineatura del fatto che la collettività, invero, ha sempre rappresentato un condizionamento sui singoli. Anche soltanto il bisogno dell’accettazione sociale di sé passa attraverso un’auspicata corrispondenza tra le scelte del singolo e i valori che la società riconosce e condivide. La misura del consenso sociale è data dall’inquadramento dell’agire pratico all’interno dell’ideologia dominante.

Oggi, però, si assiste a una esasperazione del potere di condizionamento della collettività sul singolo, alla luce di una radicale riformulazione delle modalità di approccio relazionale dell’individuo nei confronti dell’ambiente.

Il mondo viene filtrato attraverso la tecnologia, la quale fornisce un’immagine riflessa della realtà attraverso internet e i media. Non siamo mai in contatto con l’esperienza nella sua materialità. Anche le volte in cui capita di essere testimoni diretti di un episodio, di un fatto di cronaca, generalmente si preferisce immortalare l’evento riprendendolo attraverso la lente del telefonino che lo registra o lo fotografa, garantendone una duplicazione potenzialmente infinita. Il che permette a chi non era presente, cioè a tutti, di rivivere l’esperienza, esattamente come se si fosse stati lì.

Un siffatto modo di procedere nell’approccio al mondo influenza a tal punto la mente umana, che diventa quasi un bisogno morboso quello di apporre un filtro tra sé e la realtà. Piuttosto che intervenire durante una lite, in occasione di un incidente, in situazioni di pericolo che richiedono aiuto, molti preferiscono trasformare quanto accade in azione da spettacolo, farne un video e condividerlo con gli altri.

Il filosofo Andrea Tagliapietra, in Esperienza. Filosofia e storia di un’idea si esprime così: “Nell’era di internet, dello smartphone, dei google glass e degli altri apparecchi tecnologici che affollano la nostra vita quotidiana con la capillarità di un’ossessione psichica e l’invadenza di protesi corporee, l’esperienza appare sempre filtrata, mediata da dispositivi composti da schermi che tocchiamo ma non attraversiamo mai e che, quindi, non ci fanno mai toccare il mondo.” Molto chiara fu, in tal senso, l’indicazione che diede Guy Debord alla fine degli anni Sessanta nel suo La società dello spettacolo quando spiegò, appunto, il concetto di “spettacolo”, che è l’elemento che esprime appieno questo aspetto dell’ideologia, allora e ancora oggi dominante, la quale ha trasformato il mondo nella propria immagine, creando una società dell’ideologia, in cui cioè la totalità degli atti e dei prodotti la presuppongono: “Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo”, “è il mondo della merce dominante su tutto ciò che è vissuto”.

Se è vero, quindi, che istintualità e rinuncia alla progettazione caratterizzano, da una parte, i moventi contingenti all’azione nel mondo, ancor più si evidenzia, d’altro canto, l’incapacità di percepire materialmente la realtà, la quale si misura unicamente sull’illimitata e incontrollabile duplicazione della sua immagine, sulla sua quanto più ampia diffusione mediatica e sul valore aggiunto dei consensi che ne ottiene.

Il bisogno di farsi accettare dagli altri, condizione essenziale non solo per collocarsi nella società occupandone un ruolo e una posizione, ma anche per acquisire una considerazione di sé che porti il singolo ad accettare se stesso, si è radicalizzato, ha assunto i termini di un annullamento del valore dell’originalità come tratto distintivo del carattere e dell’individualità del singolo e ha acquisito un potere di condizionamento assolutizzante, che si concretizza nell’atto di condivisione delle posizioni degli altri e nel ripetere ciò che dicono coloro i quali hanno più visibilità e più credito.

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Sembra proprio sostanza dell’epoca nella quale stiamo vivendo, quella che determina la quasi impossibilità di trovarsi nelle condizioni di usare la propria testa.

Considerato che sull’agire pratico degli individui è in atto la prepotente imposizione di condizionamenti di questo tipo, noi ribelliamoci invece. Rifiutiamoci di seguire gli indirizzi comportamentali più in voga.

Facciamoci paladini di originalità a discapito delle omologazioni. Facciamoci domande, elaboriamo una nostra interpretazione della realtà. Continuiamo nel compito che ci siamo posti di smascherare le immagini che edulcorano artificialmente la verità o la deturpano. Creiamoci una nostra visione dei fatti, della realtà e del mondo e facciamolo attraverso la scienza e attraverso l’uso della ragione. E poi disubbidiamo. Impariamo a saper dire di no. Rifiutiamoci di piegarci a essere strumenti del potere di appiattimento annichilente di questa collettività votata alla bassezza e alla mediocrità. Torniamo a pretendere la realtà dei rapporti umani nel mondo, senza filtri, capaci di attingere alla realtà guardando in faccia il “vero” con orgoglio. Rifondiamo una nuova fraterna solidarietà con gli altri nel riconoscimento disilluso del destino di sofferenza impostoci dalla nostra stessa condizione esistenziale, votata per natura all’iniquità e a non progredire mai e, in questa stasi, coalizziamoci insieme contro questo implacabile nemico comune.

7 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Istintualità, estemporaneità e mondo riflesso: le omologazioni che appiattiscono la ragione”  

  1. Per me questa dimensione della momentaneità indica la volontà e la capacità dell’uomo di affrontare con coraggio l’istantanea sorpresa di eventi non prevedibili e nonostante l’eventuale disagio provocato nel quotidiano, il suo sforzo vincente di superare gli ostacoli e di trasformare l’impatto negativo in un successivo arricchimento della propria strategia vitale intesa come costruzione
    del bagaglio culturale che dovrebbe sostenere questa corsa che noi definiamo esperienza.
    Sfida è e sarà quella di non lasciarsi trascinare nel processo di omologazione culturale inesorabilmente in atto nella odierna realtà in cui risulta molto rara e talvolta assente l'”anticipazione propedeutica del pansiero” alla smania e alla patologia del “fare” senza troppo preoccuparsi delle conseguenze sociali e morali nel contesto della società .

  2. Propongo a Magdi di acquisire le conclusioni di questa illuminata analisi delle ragioni profonde della decadenza di cui siamo tutti più o meno prigionieri come obiettivo traente e insieme strategia vincente della missione della CdC. A parte il risvolto etico di questa istanza che concorrerebbe a rendere più responsabile (e quindi decisamente morale il nostro comportamento) apprezzo la lucidità del messaggio che scaturisce da queste consierazioni e invade positivamente tutti i settori della nostra azione quotidiana sanificandone le radici , inquinate da una schiavitù dichiarata nei confronti della tecnologia invece che da un sano e virtuoso impiego delle risorse messe a disposizione dalla scienza.
    Grazie Davide del tuo contributo che prima ho definito “illuminato” e ora , con le premesse che le tue battute conclusive ci mettono a disposizione, non esagero a definire “luminoso” per tutti noi.

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