Qual è lo stato d’animo prevalente degli italiani alle soglie di Natale? La malinconia, diceva il Censis nel suo rapporto di fine anno. E invece Giorgia Meloni ci esorta all’ottimismo. Eravamo considerati, tra gli europei, il popolo dell’allegria, anche quando la miseria e la povertà erano il nostro tratto saliente, rispetto alle più benestanti società del nord. Attribuivamo la nostra allegria alla natura, in un paese solare e ridente rispetto al più ombroso e piovoso clima nord-europeo; alla nostra religiosità cattolica e pagana più allegra e indulgente alla vita rispetto al più cupo rigore calvinista e protestante. Ma anche alla nostra esuberanza vitale e prolifica, al nostro carattere estroverso e giocoso, al buon umore, alla nostra vena comica, festaiola e canterina. E invece ora, due anni di pandemia, di paure ambientali, di minacce belliche ed economiche ci spingono verso il nero della malinconia. Il referto del Censis sul paese pervaso dalla malinconia e spaventato dalla pandemia, l’avevo in verità anticipato lo scorso Natale, anche su queste colonne. Una società stanca e impaurita subisce alle porte di Natale l’assedio della malinconia.
La malinconia presente nasce dall’incrocio tra il clima e le aspettative: l’atmosfera circostante e le minacce sul futuro, e sullo sfondo la denatalità del paese più anziano d’occidente. Si è così diffusa una sensazione pubblica di infelicità o come preferisco dire di scontentezza. La felicità è un sentimento interiore, privato, personale, e non passa dagli spazi pubblici e sociali; ma abbiamo sperimentato che ci sono eventi pubblici, costrizioni e orizzonti sociali ed epocali che inevitabilmente ricadono sulla vita e sul sentire delle persone, fino a toccare l’intimità e la sensibilità. C’è una felicità pubblica e una privata, e a volte le due cose s’intrecciano; non coincidono ma interagiscono, hanno zone di confine in cui si toccano e si influenzano. E la stessa cosa si può dire dell’infelicità. Stiamo subendo anche a livello personale, affettivo e famigliare, gli effetti letali e virali di questa infelicità epocale. Stiamo interiorizzando la malinconia di Stato, scrivevo lo scorso anno.
Sarà che siamo entrati in questo tunnel senza anticorpi spirituali e morali, non abbiamo contrappesi adeguati né vie d’uscita, e siamo più fragili; sarà che eravamo impreparati e siamo ormai lontani, non solo per nostra responsabilità, incuria o scetticismo, da ogni visione, istituzione e consolazione religiosa. Non abbiamo preghiere contro il male, non abbiamo riti, liturgie, esorcismi per esorcizzarla; non abbiamo santi, sacerdoti e taumaturghi e nemmeno culture, valori. Siamo sguarniti, non protetti sul piano spirituale, esposti all’umor nero e al suo contagio. Ci manca un piano di salvezza e di fiduciose aspettative per fronteggiare le sue ricadute psicologiche. E manca una prospettiva di pienezza per ridare senso alla vita.
Investiti da questo flusso di malinconia non riusciamo a elaborare la perdita di senso, futuro e libertà. Non manca dunque solo la fede in qualcosa di superiore che illumini la vita ma anche un pensiero all’altezza della situazione, in grado di darci una ragione per vivere e per affrontare il frangente con risorse adeguate. Non ci sentiamo scampati al pericolo, non ci sentiamo al riparo. Non solo perché è incerta e fallibile la medicina o la profilassi sociale, e vistosi sono i loro fallimenti ma perché la malinconia non può essere ospedalizzata né affrontata con rimedi farmaceutici e rassicurazioni vaghe. Abbiamo perso pure il piacere di viaggiare e delle vacanze lontane, siamo insicuri, temiamo le insidie se ci allontaniamo da casa. Sembra quasi di abitare il pianeta della malinconia, nessun luogo della terra appare al sicuro o immune da quell’atmosfera e da quell’umore. La globalizzazione della malattia, della guerra, dell’inquinamento ha prodotto i suoi effetti e le sue sindromi. Avevamo più aspettative e più energie tra le macerie della seconda guerra mondiale e le rovine di un paese distrutto e spaesato. Perché le nostre sono macerie spirituali e morali.
L’attesa di Natale e del nuovo anno incupisce la situazione, accresce i timori, allunga l’ombra della malinconia. Di solito la vena malinconica si acuisce in prossimità delle feste, c’è sempre un nesso tra festività natalizie, passaggio d’anno e malinconia. Comunque non è bello sapere che l’unico sentimento di appartenenza che unisce gli italiani, e forse gli europei, è questa comune percezione di melanconia. Qui scendiamo sul terreno politico e civile. Quest’anno, oltre che melanconici, ci siamo scoperti melonconici, visto il consenso alla Meloni. Non sappiamo ancora dire se stia cambiando le cose oppure no, c’è qualcosa di imponderabile nei suoi primi passi ed è presto per vederne gli effetti, anche se ne apprezziamo il piglio e la passione. Ma una cosa l’ha capita e lo dice: prima di tutto si tratta di strappare gli italiani alla sfiducia, allo scontento e alla malinconia, ripartire dalla fiducia operosa e dall’ottimismo. Non potendo cambiare le cose come vorremmo, cambiamo intanto il nostro atteggiamento. Mi pare almeno un buon proposito natalizio. Dallo scontento trasse voti la Meloni, ora lei stessa vuol convertirlo in ottimismo. Solleviamo il morale prima di sollevare la situazione.
Ma la questione va oltre la politica e il governo, investe il piano umano, psicologico e spirituale. Eppure basterebbe poco per ritrovare un po’ di fiducia e di allegria; basterebbe un po’ di coraggio, il ricordo di momenti più gravi della nostra storia superati con slancio vitale. Dovremmo riprendere a provare piacere per le cose che abbiamo, provare gioia per le cose durevoli in un mondo pure così labile, ritrovare degne motivazioni per vivere e riprendere un po’ di fiducia nel futuro, prima ancora che in chi ci guida. Dai, non siamo poi messi così male; quanto alla nostra condizione di mortali era prevista in partenza, da sempre.
La Verità – 24 dicembre 2022
Malinconia italiana alle porte di Natale