Il periodo natalizio e l’imminente inizio di un nuovo anno trovano concordi tutti, o quasi, in un corale auspicio di pace. Un auspicio assai sentito da quelli che, come me, da bambini hanno vissuto l’esperienza dei bombardamenti aerei alleati sul nord Italia e che ora, ultraottantenni, condividono il timore per un malaugurato ma possibile ampliamento del conflitto in atto tra Ucraina e Russia. Molti anziani del nostro paese nacquero all’inizio o nel corso della seconda guerra mondiale, in un’Italia bersagliata giorno e notte dai bombardamenti aerei angloamericani. Di notte gli inglesi e di giorno gli americani, secondo due modi di vedere l’efficacia dei bombardamenti in rapporto alle caratteristiche operative dei rispettivi mezzi aerei e della dislocazione delle basi aeree di appoggio. Concordi su questa spartizione delle incursioni, gli “alleati” non lo furono del tutto, ma solo in teoria, sull’esecrabile esecuzione dei bombardamenti “a tappeto”, dei quali peraltro entrambi si avvalsero.
Va detto che il coinvolgimento della popolazione civile nelle guerre è chiaramente respinta e condannata nelle varie convenzioni internazionali che dal 1800 ad oggi si sono occupate di diritti umani nel contesto di fatti bellici. Però, viste le notizie provenienti dal fronte ucraino, le vittime civili in questa guerra dei nostri giorni, si contano numerose nonostante gli accordi internazionali, reiterati anche dopo il secondo conflitto mondiale. La tutela dei civili in caso guerra, per quanto chiaramente e concordemente affermata, non è nei fatti garantita. Su questo occorrerà fare il punto della situazione, in termini di diritto internazionale, poiché difficilmente l’umanità si libererà dal ricorso alla guerra e i civili, protetti a parole, continueranno a patirne le conseguenze, come nel passato. La responsabilità dei governi in questa inottemperanza alle convenzioni internazionali è del tutto evidente, non solo perché nei fatti si è trasgredito al dovere della tutela dei civili in tempo di guerra, ma in modo parimenti esecrabile si è poi taciuto sulle vittime, in tempo di pace. Non solo sulle vittime inflitte al nemico, ma, come nel nostro caso, si è taciuto addirittura sulle vittime subite, perché la più disonorevole convenienza politica ha comportato per noi anche questa ignobile conseguenza. Ed è questo il fatto che voglio qui rievocare: un fatto che riguarda la storia d’Italia nel corso della guerra del 1940-45 e poi le nostre istituzioni repubblicane, per molti anni successivi fino alla prima decade del nuovo millennio. Va premesso, al riguardo, che la narrazione, per i conseguenti giudizi, tiene conto solo delle convenzioni internazionali stipulate antecedentemente al secondo conflitto mondiale, poiché quelle successive al 1945 non hanno attinenza con quanto avvenuto in precedenza. Per completezza dell’informazione si segnala brevemente che le convenzioni stipulate dopo la guerra introducono nuovi elementi giuridici atti a rimarcare l’aspetto “intrasgressibile” delle norme (Ginevra, 1949), in quanto ritenute “imperative” (“ius cogens”), secondo la Corte Internazionale di Giustizia (ICI). Col risultato poco confortante che nonostante le precisazioni citate, nelle guerre in corso il sacrificio di civili innocenti continua, come se nulla fosse.
Ciò detto, nelle convenzioni antecedenti al secondo conflitto mondiale risultavano già sanciti alcuni principi fondamentali ineludibili, e pare opportuno citarli. I testi di riferimento sono quindi quelli delle convenzioni di Ginevra del 1864, 1906, 1929; quelle dell’Aja del 1899 e 1907 e la Dichiarazione di San Pietroburgo del 1869, estrapolando dai relativi documenti, cui attinge la ricerca effettuata, gli argomenti più significativi in merito alla tutela dei civili in tempo di guerra.
Dai testi sopra citati si desume anzitutto che l’uso di bombardamenti a tappeto viola uno dei principi basilari del “diritto dei conflitti armati” e cioè il cosiddetto “principio di distinzione”. I bombardamenti a tappeto, infatti, per le modalità operative degli stessi, non permettono a chi li pone in atto “di distinguere gli obiettivi militari da quelli civili”.
Il principio della “distinzione” trae origine, seppur indirettamente, dalla dichiarazione di San Pietroburgo (1869) che considerava l’opportunità della rinuncia all’uso in guerra di proiettili esplosivi “poiché il solo scopo legittimo cui gli stati devono mirare con la guerra è battere l’esercito nemico”, senza infliggere danni collaterali alla popolazione civile. E gli esplosivi colpiscono in modo indifferenziato chiunque si trovi nel raggio d’azione dello scoppio. L’art. 25 della IV Convenzione dell’Aja del 16 ottobre 1907 concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre, sulla base delle considerazioni sopra riportate, vieta infatti di “attaccare o bombardare con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifici che non siano difesi”. Nel testo di questa Convenzione ha particolare rilievo un passaggio, denominato “clausola Martens” dal nome del proponente, che pone in collegamento i principi già sanciti con quelli che dovranno essere più opportunamente codificati in futuro. Dice infatti questa clausola che “…nei casi non compresi nelle disposizioni adottate, le popolazioni civili…restano sotto la salvaguardia e l’imperio dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti fra le nazioni civili, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della pubblica coscienza”. Una clausola, questa, di rilevante contenuto orientativo per la normativa futura, “de iure condendo”, per la tutela dei civili in guerra. Pur con queste ottime premesse il divieto ai bombardamenti restò lettera morta e il potenziale esplosivo di proiettili e bombe, invece di essere ridotto, aumentò nel tempo in modo esponenziale. Anzi, l’uso bellico di tali armi divenne la “norma”. Milano, ad esempio, contò 1600 vittime civili nel corso di sessanta incursioni aeree alleate durante la seconda guerra mondiale; fra le tante, quelle del 13,15 e 16 agosto 1943, interessarono quasi tutta l’area urbana, distruggendo o danneggiando, specie con bombe incendiarie, circa il quaranta per cento del patrimonio edilizio e monumentale della città, con 360.000 vani abitativi distrutti o gravemente lesionati e più di 200.000 danneggiati, su circa 900.000 esistenti. 250.000 furono i senzatetto e 300.000 gli sfollati. Il più massiccio bombardamento dell’intero conflitto in Italia fu quello notturno del 13 agosto nel corso del quale 503 bombardieri inglesi sganciarono su Milano 1252 tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Sebbene la Gran Bretagna avesse in un primo tempo preso le distanze dall’uso di bombardamenti a tappeto sul nord Italia, condivise poi nei fatti la scelta effettuata dall’alleato americano , per la convinzione preponderante che il panico generato dai bombardamenti, insieme ad un uso intelligente della propaganda condivisa a livello di “intelligence” anche con gli oppositori interni alla R.S.I., avrebbe persuaso i civili italiani che il governo fascista, e non i britannici, era responsabile della situazione.
In questo quadro poco edificante di comportamenti esecrandi ed intenzioni malevole, si colloca l’episodio del bombardamento della scuola elementare di Gorla, quartiere periferico di Milano, che ha assunto, purtroppo, un valore emblematico sia per il fatto, sia per il silenzio che poi a lungo lo coprì.
Il 20 ottobre 1944, alle ore 7,58, due formazioni di bombardieri alleati B24 e B27 del 451° Bomb Group, al comando del colonnello James B. Knapp, decollarono dalla base aerea di Castelluccio dei Sauri, in Puglia, facendo rotta verso Milano. Gli obiettivi da colpire erano la zona industriale della Breda, che produceva fra l’altro anche materiale bellico e aerei, e il contiguo scalo ferroviario del quartiere periferico di Greco al fine di distruggere con un bombardamento a tappeto l’intera area produttiva e annessi assi di comunicazione e trasporto situata fra la periferia nordovest di Milano, con i quartieri di Greco, Turro, Precotto, Gorla, Crescenzago e il limitrofo territorio di Sesto S. Giovanni. Gli aerei impiegati nella missione trasportavano 342 bombe di 500 libbre ciascuna per un totale di 80 tonnellate di esplosivi. Giunti in prossimità di Milano alla quota operativa prevista di 10.000 metri, scelta per meglio eludere possibili attacchi degli aerei da caccia della R.S.I., la prima squadra di bombardieri si trovò sulla verticale di una zona di campagna, non coincidente con gli obiettivi prefissati, per un errore di calcolo della rotta. A questo inconveniente se ne aggiunse un altro: un corto circuito sul velivolo del capo formazione azionò automaticamente il sistema di innesco e predisposizione allo sgancio delle bombe. I bombardieri che seguivano interpretarono l’operazione erronea del capo formazione come se fosse l’ordine di predisporre lo sgancio per tutta la squadra. Il capo formazione, accortosi che l’intera squadra era pronta, senza effettuare ulteriori manovre per correggere la rotta e cercare gli obiettivi, diede l’ordine di sganciare le bombe che per fortuna caddero sulla campagna. Una volta predisposte le bombe per lo sgancio era opportuno, per la sicurezza del personale di bordo, che i velivoli si liberassero del carico pericoloso entro un tempo determinato. Il bombardamento sulla campagna in questo caso fortunatamente non causò né danni né vittime, per quanto se ne sa. Purtroppo, i guai non prodotti dalla prima formazione aerea, furono prodotti dalla seconda, aggravati ancora una volta da un errore di rotta che però in questo caso portò conseguenze disastrose per i civili. Il capo formazione della seconda squadra, ordinata la predisposizione allo sgancio, constatò che la rotta era stata corretta di 20 gradi a destra e non a sinistra rispetto agli obiettivi da colpire. L’intera squadra di bombardieri era però sulla zona fittamente urbanizzata di Gorla e Precotto. Agli equipaggi in volo non venne ordinato di virare verso la campagna per liberarsi del carico pericoloso, fuori dall’abitato. Senza indugi, il comandante ordinò invece di disfarsi immediatamente del carico di 80 tonnellate di esplosivo, contenuto in 342 bombe da 500 libbre ciascuna. Alle ore 11,29 trentasette tonnellate di bombe colpirono il quartiere di Gorla e il rimante carico toccò alle località limitrofe.
A seguito delle sirene d’allarme suonate a Gorla alle 11,24, il personale in servizio presso la scuola elementare “Francesco Crispi”, sul cui tetto c’era una bandiera della Croce Rossa, si affrettò a condurre le scolaresche fuori dalle aule dislocate sui tre piani dell’edificio. Le scolaresche rapidamente si riversarono nei corridoi e poi sulle grandi scale centrali che conducevano fino ai rifugi antiaerei sotterranei, ricavati dagli scantinati dell’edificio. Alle 11,29 una bomba da 500 libbre sfondò il lucernario posto sopra la tromba delle scale, in quel momento affollatissime da cima a fondo di bambini e insegnanti, e in meno di un decimo di secondo esplose al livello interrato dei rifugi. In un attimo morirono 184 bambini, 14 insegnanti, 4 bidelli, la direttrice didattica e l’assistente sanitaria della scuola. Nel bombardamento sul quartiere persero la vita altre 480 persone, tra le quali anche alcuni genitori degli alunni che si erano precipitati, mentre piovevano bombe, a scavare con le mani fra le macerie fumanti della scuola, nel tentativo disperato di portare soccorso. Una madre trovò il proprio figlio morto e stringendoselo fra le braccia se lo portò a casa. Sopravvissero due scolaretti che scapparono dalla scuola. Una bambina terrorizzata si salvò così. L’altro, un bambino che si allontanava correndo, investito dall’onda d’urto dello scoppio, venne trovato in mezzo alla strada, apparentemente esanime. Ma si riprese e di lui si disse che era nato due volte. Sul quartiere sventrato, un mezzogiorno di dolore e di morte segnò con la sua immane tragedia i ricordi di chi sopravvisse e di chi per mesi tentò, senza mezzi e risorse, di porre qualche rimedio al disastro e all’orrore patito. Nella stessa giornata in altre due zone della città, due stormi di 38 e di 29 bombardieri B24 compivano incursioni sugli stabilimenti della Isotta Fraschini e dell’Alfa Romeo, centrando le strutture industriali. La città, martellata senza sosta, non sembrò mai del tutto piegata e dove e come era possibile l’attività di costruzione o di ricostruzione, per quanto limitata e rallentata dalle incursioni aeree, non si fermò mai del tutto. Finì la guerra e mentre si ripristinavano il tessuto urbano e le attività produttive, su alcuni fatti luttuosi calò il silenzio. Della strage della scuola Crispi continuò ad occuparsi il quartiere ma il resto della città e gran parte dell’opinione pubblica locale e nazionale ignorò il fatto, anche per il silenzio dei mezzi d’informazione. Lo constatai io stesso; giunto quattordicenne a Milano nel 1954, per oltre trent’anni non sentii menzionare quella strage da nessuno, nemmeno a scuola o all’università. Non ne seppi nulla fino a quando non udii parlare di una scuola intitolata ai “Piccoli Martiri”, che non era quella della strage mai più ricostruita, ma un’altra posta nelle vicinanze. E lì nacque il mio bisogno di sapere. Dato il silenzio locale su quell’ecatombe, girando per l’Italia al tempo in cui fui presidente dell’A.N.DI.S. non mi sorprese il fatto che di quella vicenda tanto terribile quanto emblematica nessuno sapesse nulla, nemmeno negli ambienti scolastici, in cui mi capitò casualmente qualche volta di menzionare il fatto. Mentre il passare degli anni faceva scomparire i testimoni e i protagonisti di quell’epoca, dopo quasi sessant’anni, la memoria di quell’evento cominciò a riemergere da quelle che per me erano le rovine del “politicamente corretto”. Non so ancora chi cominciò a risvegliare le coscienze e l’attenzione sull’eccidio di Gorla, Ma nel tempo prese forma una proposta di legge, presentata in parlamento il 20 ottobre 2010, per iniziativa di un consistente gruppo di parlamentari, per istituire una “Giornata del Ricordo della strage dei Piccoli Martiri di Gorla”. E per il fattivo impegno dell’Associazione delle Vittime Civili di Guerra da alcuni anni la celebrazione ha luogo. In ogni caso ancora oggi l’eccidio di Gorla è noto solo a pochi. E’lecito chiedersi perché. E alla domanda spontanea corrispondono altre spontanee risposte, per quanto fastidiose per la coscienza. Il governo italiano per decenni non si prese la briga di sollevare un procedimento per crimini di guerra nei confronti del “liberatore” nonché alleato americano, nonché con l’altro “liberatore” alleato britannico. Per giunta impegnati, entrambi, a battere la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), quindi il fascismo. Beninteso, senza darsi pena che il prezzo maggiore lo pagassero le vittime civili italiane, anche non fasciste. Più semplice era stato, come avevano previsto i britannici, scaricare le colpe sul governo di Mussolini, dimenticando che rispetto alle convenzioni internazionali sulla tutela dei civili in tempo di guerra, gli alleati non ne uscivano certo “immacolati”. Difficile reperire una strage di bambini peggiore di quella, se non, presumibilmente, per le conseguenze delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Ricordo qualcosa di simile nell’eccidio di 186 bambini a Beslan, in Ossezia nel 2004 per mano di terroristi islamici. Ma altro non mi sovviene. Nel 2019, dopo 75 anni dalla strage di Gorla, il console americano a Milano, signora Elizabeth Lee Martinez, inviò una lettera al sindaco di Milano G. Sala con le condoglianze per le famiglie delle vittime e depose un mazzo di fiori al monumento in pazza “Piccoli Martiri”. Un monumento funebre voluto e pagato dai parenti delle vittime, con pochi aiuti a loro supporto. Opera assai significativa e toccante di Remo Brioschi, il monumento rappresenta una figura umana coperta, il corpo e il volto, da un lungo abito nero con il cappuccio sul capo reclinato. Sulle braccia tese, con le mani aperte in avanti, porta il corpo esanime di un fanciullo e sembra mostrarlo al mondo intero con immenso dolore e riprovazione : “ Guardate, uomini, che cosa avete fatto”. Qualcuno ha scritto che la statua è ispirata a quella mamma che si portò a casa il proprio figlio morto. E’possibile. Io però continuo a vedere altro in quell’alta figura dolente. E’ un’immagine della Morte che cela il volto, ma non può nascondere la pietà che prova per le sue stesse vittime.
Vittorio Zedda
30 dicembre 2022
È vero, l’eccidio di Gorla non viene ricordato da nessuno, né avevo letto solo un’altra volta e basta. Per denunciare i crimini garibaldini a Bronte occorsero più di 100 anni, ormai ne sono trascorsi quasi 80 da allora e la strage è ancora avvolta nell’oblio.
È vergognoso che gli intellettuali che si proclamarono “buoni e giusti”, quelli di Sinistra, per decenni e decenni, nelle università, nelle
piazze, nelle pubbliche conferenze e sui mass media, abbiano sempre taciuto sui gratuiti bombardamenti degli alleati anglo americani sui paesi e sulle città italiane. Bombardamenti che hanno causato migliaia di morti civili, avvenuti non prima ma dopo l’Armistizio, con l’abiura del Fascismo e del Nazismo e l’adesione formale e istituzionale del Governo italiano all’alleanza antifascista e antinazista. Questi soloni di Sinistra non mi risulta abbiano scritto dei libri su questo argomento. Quando il giornalista e scrittore G. Pansa pubblicò degli studi che demitizzavano la Resistenza con prove documentali, gli organi della Sinistra istituzionale lo chiamarono “traditore”.
L’orrido bombardamento con la bomba atomica sulle due città giapponesi che tutti conosciamo, fu tacitamente approvato dai “buoni e giusti” di Sinistra, comunisti e democristiani.
Noi che non ci conformiamo alla viltà degli intellettuali dovremmo fare di più: portare dinnanzi al tribunale di Norimberga i responsabili delle stragi perpetrate dai Governi inglesi e statunitensi del periodo 1943-45. Se le persone fisiche non si possono condannare poiché sono tutte morte, dovremmo condannare perpetuamente la memoria dei loro nomi e chiedere un risarcimento che vada in un fondo speciale per realizzare opere volte alla diffusione della cultura della pace.