Nel 1957, pochi giorni prima del Natale, nel suo Diario di New York Prezzolini appunta alcune considerazioni che mettono in risalto la netta demarcazione che egli ritiene di individuare tra la dimensione sociale dell’esistenza e la scelta di vivere, per converso, in una dimensione intellettuale e appartata.
Ritenendo di prediligere uno spazio esistenziale dal quale guardare al mondo senza parteciparvi direttamente, Prezzolini sottolinea come la dimensione sociale dell’esistenza sia fondata sulla menzogna mentre quella intellettuale si basi sulla ricerca della verità. Dice Prezzolini: “La società è fatta di amenità, di reciproci complimenti, che tutti sanno falsi e che si scambiano con aperta conoscenza della loro falsità”.
L’abitudine a vivere troppo a contatto con la società, sostiene Prezzolini, “rende ottuso il gusto della ricerca e della verità”. Secondo questa prospettiva gli uomini che conducono una vita sociale intensa sono, per loro stessa scelta, incapaci di godersi, poi, i benefici della vita intellettuale, perché non le dedicano tempo a sufficienza. Sostenendo l’incompatibilità tra uno stile di vita mondano e una vita dedita, invece, allo studio e alla ricerca, Giuseppe Prezzolini si intona all’idea, di reminiscenza proustiana, secondo la quale la troppa socialità faccia sprofondare la vita su un livello esistenziale limitato, “medio”, caratterizzato da una certa mediocrità intellettuale.
Di fatto, lo scrittore mostra di aver maturato un’opinione molto bassa delle masse popolari che costituiscono la struttura sociale della realtà a lui contemporanea. Prezzolini, che vive lungo tutto il corso del Novecento, del quale secolo si fa testimone fedele e senza alterazioni, sostiene che il popolo non capisca nulla e che il solo modo per conquistarlo sia quello di soddisfare il suo bisogno di illusioni e di bugie. Egli ritiene che costante della Storia sia la netta predominanza di passioni, desideri, fantasie e piccolezze varie che predominano sui ragionamenti e sulle poche verità della ragione.
In un’intervista per il periodico Panorama, fattagli quando aveva ben novantasette anni, Prezzolini dichiara: «Non mi occupo di politica e non ho mai votato in nessun Paese, Italia o America, dove ne avrei avuto il diritto. Non credo che i cambiamenti di regime trasformeranno mai gli uomini. Non credo che gli uomini diventino felici solo perché vivono sotto un governo dominato da un sovrano, o da una votazione di maggioranza, da un clero intransigente, o da un’attesa della uguaglianza, o da un dominio degli scienziati. Lo sono soltanto quando sopraffanno i loro simili, che parlano un’altra lingua, o praticano un’altra religione. Non credo, insomma, nella politica. Credo negli individui che si formano il loro destino nelle condizioni che trovano».
Nella Storia, in sostanza, i concetti di fratellanza e di cooperazione reciproca sono vani; non rappresenta un fattore determinante di cambiamento e di sviluppo storico la difesa dei diritti dell’uomo. Attraverso l’osservazione del mondo Prezzolini, con lucida disillusione, giunge alla conclusione che alla base di tutti i governi c’è la forza e che nessuno Stato è nato senza violenza.
Accordandosi in tal senso con Benedetto Croce, Prezzolini ritiene che «le guerre non sono che un mezzo della politica e la politica fu sempre, con una frangia di scopi secondari, null’altro che la lotta per la conquista del “potere”». Caratteristica comune a regimi monarchici e repubblicani è l’assenza di portatori di pace tra governatori e presidenti, tutti mossi a far guerra a partire da istanze di conquista del potere, magari sotto l’insegna di azioni compiute a fin di bene.
Lo stesso Henry Kissinger ammette candidamente e con sincerità che «non si fanno le guerre per il beneficio dell’umanità, ma per interessi nazionali».
Decisamente critica è la posizione di Prezzolini nei riguardi della politica bellicista degli Stati Uniti. Egli sottolinea il carattere contraddittorio dell’idea che sostanzia la definizione di “guerra democratica”. Si tratta di un concetto profondamente falso, di cui denuncia una colpevole mancanza di consapevolezza, o l’ipocrita ignoranza, di cosa voglia dire davvero “guerra”.
«La guerra è una cosa orrenda, ma nel suo orrore ha una logica che la salva, cioè lo scopo per il quale si fa e che bisogna raggiungere a ogni costo. Per ciò la guerra è la fine di ogni riguardo, di ogni dovere, di ogni umanità. Tutto vi è lecito purché il nemico sia vinto». Ontologicamente non può intendersi alcuna limitazione nella guerra, non può esistere nessuna guerra condizionata. La concretezza del raggiungimento dell’obiettivo le toglie ogni tipo di nobiltà.
Guardare al mondo con atteggiamento critico richiede la capacità di mantenere una lucidità analitica con la quale delinearne logiche di fondo e contraddizioni, anche attraverso la semplice sottolineatura delle storture che si palesano chiaramente. Il Novecento è un secolo le cui forze motrici, probabilmente, non possiamo non riconoscerle attive vigorosamente anche oggi.