MARCELLO VENEZIANI: “Carnevale, la festa, il gioco e il massacro”

Il Carnevale è il crocevia tra sacro e profano, tra pagano e cristiano, tra antico e moderno, tra nobile e plebeo, in cui l’uno sconfina nell’altro e uno si fa beffe dell’altro. Una festa che coglie tutto l’humus popolare romano, l’indole ironica e comica dei romani, il forte senso della caricatura e del grottesco. Ma anche la dimestichezza con l’eterno e con la storia, l’intreccio di religioso e irriverente, la celebrazione rituale del corpo, del sesso e del cibo, l’elogio della follia fino all’esorcismo collettivo di paure e spettri. E i brindisi infiniti alla morte ubriaca, nella speranza che, alterata dalle libagioni, anche la morte perda lucidità e non svolga il suo compito ferale. Un’antica impronta dionisiaca, quel Dioniso che a Roma diventò Liber Pater e quindi Bacco, ispira alle sue origini i Saturnalia, con le sue prime trasgressioni e le prime maschere fino al mitico Meo Patacca. Poi l’anima trasgressiva e orgiastica delle origini viene gradualmente metabolizzata nella Roma cristiana e papalina, che non abolisce le feste pagane ma tende piuttosto a riconvertirle dentro la propria sfera per controllarne gli effetti.
Il Carnevale di Roma, “gran theatro del mondo”, si intreccia al mondo delle maschere e dei travestimenti ma anche alle gare dei cavalli, derivazioni  dell’antica Equiria, la festa equestre che cadeva il 27 febbraio e si ripeteva poi quindici giorni dopo, dedicata in origine al dio Marte. E poi continuata nella Roma cattolica fino al principio dell’Ottocento, come ricordava anche Goethe nel suo Viaggio in Italia, con la gara dei cavalli prima tra il Testaccio e il Campidoglio e poi sulla via Lata, l’attuale via del Corso, da piazza del Popolo a piazza Venezia. Riti di passaggio dall’inverno alla primavera, come ricordava Alfredo Cattabiani.
Il Carnevale romano costituiva non soltanto una festa liberatoria ed euforica, ma aveva anche un suo lato eversivo e poco rassicurante. Franco  Cardini parla di “festa inquietante” e di “fase pericolosa dell’anno” perché esplodevano violenze e all’indomani si facevano macabri ritrovamenti. Non a caso nel 1560 furono proibite le maschere a Roma in seguito a fatti di sangue, che si ripeterono nel 1579. E l’atmosfera minacciosa del Carnevale romano la colse anche lo stesso Goethe, assistendo alla “festa dei moccoletti” segnata dalla minaccia di ammazzare chi aveva la candelina spenta, e vi era chi spegneva apposta la candelina del vicino per compiere assassini rituali. Insomma c’era un versante sinistro del carnevale romano.
 Per questo si può condividere sino a un certo punto l’idea che il Carnevale anche a Roma fungesse da valvola di sfogo per le intemperanze e il disordine. Anziché imbrigliarle e domarle, il Carnevale romano in alcune fasi storiche favoriva entrambi, dandone un teatro e una messinscena adatta; diventava un po’ come l’odierno carnevale di Rio, una specie di zona franca e tempo sospeso in cui poter compiere delitti in altri periodi dell’anno vietati.
La funzione principale del Carnevale, lo spiega uno dei massimi cultori della Tradizione, Renè Guénon, era comunque quella di “canalizzare” e rendere “inoffensive”, oltrechè delimitate nel tempo e nel luogo, alcune manifestazioni esplosive o alcune tensioni “sataniche” (Simboli della scienza sacra). Una sorta di rovesciamento rituale, non solo limitato al piano politico e sociale, per consentire un controllo delle spinte sovversive e contestatrici, ma anche un evento iniziatico, per circoscrivere e neutralizzare l’affiorare dei demoni e degli spiriti nefasti. A Carnevale è dato libero ma limitato accesso alla follìa e al caos, all’inversione dei ruoli sociali, anagrafici e perfino sessuali; il principio che lo sorregge è l’eccezione che serve a confermare la regola, consentire uno sfogo per rafforzare l’ordine, la gerarchia e riportare la trasgressione nell’alveo dei rapporti “normali”, nell’osservanza dei doveri civili e delle pratiche religiose. Semel in anno licet insanire. Naturalmente non manca accanto al controllo dell’aspetto destabilizzante, anche l’aspetto puramente ricreativo e festoso, il divertimento e l’allegria carnascialesca. Nei saggi sull’Umorismo Pirandello sosteneva che la matrice del comico fosse “il sentimento del contrario”; e la festa del Carnevale è proprio dedicata al mondo a rovescio, il mondo al contrario. Una festa del comico e del grottesco, in piazza, in cui tutti sono attori e spettatori, vittime e carnefici. Una festa di popolo, realmente comunitaria, dove la tradizione perdeva l’austero sussiego delle Chiese e dei Palazzi e scendeva chiassosa e festosa per i vicoli e le piazze di Roma. Un rito collettivo e un patrimonio d’umanità da non dimenticare che ora viene meritoriamente riportato alla luce. Tra tante posticce tradizioni reinventate nel nostro paese per finalità turistiche, un’antica, genuina e radicata tradizione popolare come il Carnevale romano non può essere inghiottita nell’oblio. L’anima di un popolo ha bisogno del suo carnevale, come la verità ha bisogno di una maschera per svelarsi.

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