A vent’anni giusti dalla morte, Alberto Sordi è andato al governo. A sentirla parlare, Giorgia Meloni ricorda un po’ lui, la sua inflessione romanesca, i quartieri più veraci di Roma, er core de Roma. Ma è solo apparenza. La Meloni ha la buccia di Sordi, ma il midollo è tosto. L’epoca di Sordi non è più la sua, la nostra. La traduzione politica di Alberto Sordi resta Giulio Andreotti, che non a caso comparve pure in un suo film, il Tassinaro; o ad andare indietro, è il tempo del Papa Re, in versione Santa Romanesca Chiesa, a cui dedicò alcuni memorabili film.
Sordi è stato uno straordinario interprete di ciò che non vogliamo essere; interpretò al meglio il peggio dei romani e degli italiani. Ha descritto nei suoi film l’autobiografia di cui dovremmo vergognarci: spacconi, vigliacchi, mezzi corrotti e mezzi corruttori, fregnoni e pataccari, voltagabbana e fintoamericani, mammoni e un po’ cinici, tra il furbo e il fesso. Un italiano amabile nella ricreazione, insopportabile sul lavoro; divertente a tavola, irritante nella vita seria. Molta umanità, scarsa affidabilità.
Se vogliamo, il rifiuto di Roma che alimentò per anni lo spirito nordista e secessionista della Lega, trasse spunto simbolico e allegorico dalla Roma che aveva interpretato Sordi. Chi disprezzava Roma la vedeva attraverso la caricatura di Albertone, ritenendo che una maschera potesse rappresentare davvero l’antropologia del romano e dell’italiano centro-meridionale.
Tanti anni fa scrissi un editoriale che fu titolato “Ammazziamo Alberto Sordi”, in cui auspicavo di ammazzare l’albertosordi che è in noi. Mi raccontò Carlo Verdone che Sordi gli telefonò chiedendo chi fosse “questo comunista” che voleva ammazzarlo. Verdone gli spiegò che col comunismo proprio non c’entravo… Ma non era un attacco personale, me la prendevo col tipo umano che lui aveva magnificamente rappresentato.
Sordi è riuscito più di ogni altro a scrivere a rovescio l’autobiografia degli italiani, mostrandoci i nostri difetti seppure in versione simpatica e spiritosa: nessuno come lui ha saputo portare in scena l’italiano cinico e vigliacco, mammone e imbroglione, mezzo corrotto e mezzo corruttore, spaccone e cascamorto, voltagabbana e fintoamericano, furbo e bambinone, incapace di tenere alta una bandiera fuori della propria pelle e dalla propria cotica. L’Italiano che non ha mai fatto la storia ma che l’ha subita, cercando di trarre qualche vantaggio personale o perlomeno tentando di schivarne i costi e le responsabilità. Un italiano amabile a tavola e al bar, al cinema e nella ricreazione, ma insopportabile nella vita seria. In una parola forse un po’ triviale ma adeguata, Sordi ha interpretato alla perfezione l’Italiano paraculo, nel duplice senso corrente dell’espressione: ovvero da un verso animato dalla preoccupazione suprema di pararsi le chiappe a scapito del mondo e dall’altra spinto a prendere per i fondelli il prossimo. Ha rappresentato quell’italiano piccolo piccolo, la sua miseria ma anche la sua umanità. Non possiamo credere che l’italiano vero si identifichi del tutto e si esaurisca in quella pur magnifica e umanissima macchietta. Non capiremmo nulla del nostro paese, dei suoi centri storici, della sua arte e della sua cultura, della sua religione e della sua civiltà, se davvero riducessimo l’italiano doc alla sua caricatura sordida. Quel tipo umano descritto da Sordi ha una sua tradizione minore ma lunga; viene dai secoli della Roma papalina, zeppa di preti, suore e prostitute, più contorno di fregnoni e pataccari, capace di navigare tra l’acqua santa e il vino dei castelli, popolata da sudditi rassegnati ad arrabattarsi tra l’eternità e il provvisorio, cultori antichi e pezzenti della magnata, abituati a peccare di nascosto, a dire le bugie per portare a casa la pelle. Un’Italia anche tenera, anche umana, ma tutta presa dal suo particulare; Io, pasta e famiglia.
Peraltro nella vita reale, a Sordi mancava il tratto principale dell’italiano tipo, che ben descrisse Leo Longanesi in una frase celebre che fu il blasone del familismo nostrano: Tengo famiglia. Sordi fu scapolo impenitente (“non mi metto un’estranea in casa”, diceva) e questo contraddice l’italiano-tipo di quel tempo, con prole a strascico e moglie incombente. In questo fu tutt’altro che arcitaliano e romanesco.
Gli ultimi suoi film scivolarono nell’inavvertenza, le ultime apparizioni in video furano imbarazzanti; cercava di compensare con la sua risata sonora e contagiosa, che era una citazione dal mitico passato, l’ esaurirsi della verve. Ricordo una patetica sua performance a un concorso di Miss Italia che costringeva il povero Fabrizio Frizzi a una fastidiosa paresi da finte risate per le gag sordiane. Sordi era già entrato da vivo in quel museo delle cere abitato da grandi attori del passato che fanno i monumenti di se stessi: come Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Portava in scena il proprio tramonto e il ricordo del repertorio passato.
Sordi fu un talento unico, perfino più bravo di quei suoi coetanei, già grandi, che interpretarono la commedia all’italiana, da Nino Manfredi a Vittorio Gassman a Marcello Mastroianni, per limitarci ai “romani”. Fu l’unico che si avvicinò a Totò nella gerarchia reale della comicità italiana. Dopo di lui e Gigi Proietti, l’universo romanesco restò affidato a Verdone e Montesano. Ma negli ultimi anni l’unica novità satirica con quel segno è Osho, al secolo Federico Palmaroli, che fa parlare il mondo in romanesco, con esiti esilaranti. Sordi ha mostrato i difetti da cui dobbiamo correggerci; o che forse dovevamo, prima che arrivasse con i social, gli smartphone e la nostra dipendenza, una mutazione antropologica che ci ha reso diversi ma non migliori rispetto a ciò che eravamo. Oggi non siamo più Sordi, ma siamo più ciechi e più muti, cioè meno capaci di vedere la realtà e di parlarci tra noi.
La Verità – 24 febbraio 2023
Sordi, l’Italia che fu