Domenica scorsa era il centosessantesimo compleanno di Gabriele d’Annunzio e l’abbiamo festeggiato a casa sua, a Gardone, dove faceva gli onori di casa Giordano Bruno Guerri. Che non è solo il presidente della Fondazione del Vittoriale, e non è solo biografo di d’Annunzio ma ormai somiglia anche fisicamente a lui e sotto sotto si sente la sua reincarnazione. C’erano a festeggiarlo, come si addice a un Eroe, militari di varie armi e gradi, uniti nell’alzabandiera davanti alla sua dimora magnifica. Ma d’Annunzio ama sorprendere e sconcertare. E mentre tutti celebrano, giustamente, il Poeta Soldato, si scopre che Gabriele da giovane poeta e scrittore già famoso, fece di tutto per non andare alla leva militare. Fece persino domanda di esonero per problemi di vista; fu ricoverato, ma poi fu arruolato. A ventisei anni compiuti, mentre si stava godendo il successo letterario de Il Piacere… il piacere fu interrotto dall’arruolamento. Era il 1889, d’Annunzio aveva già compiuto 26 anni. Nello stesso anno, in Francia, facevano la leva militare due giovanotti diciottenni, Marcel Proust e Paul Valéry. “Sono disperato” scriveva d’Annunzio, reclutato nel quattordicesimo reggimento dei cavalleggeri nella caserma Macao di Catro Pretorio, in Roma. Lo scrittore, ridotto a matricola 7356, considerava allora la vita militare contraria a “ogni fioritura intellettuale”; si sentiva ridotto a un bruto, alla stessa stregua del suo cavallo. Il suo peggior nemico, scriveva, non avrebbe potuto immaginare “un supplizio più feroce, più disumano…Io sono schiavo, ho perduto ogni libertà, ogni dignità di uomo”. Poi coi mesi il caporale d’Annunzio riuscì a ottenere qualche licenza, ebbe un attendente per il suo cavallo e con una diagnosi di nevrastenia riuscì ad alleviare la vita militare.
Era ancora l’Ottocento, d’Annunzio era immerso nella dolce vita romana e nei piaceri dell’eros (era il tempo di Barbara Leoni, la sua amata Barbarella), nei libri e nelle ebbrezze letterarie e non solo. La vita da soldato gli risultava aliena, mortificante. Poi venne il Novecento, e d’Annunzio scoprì la Poesia Totale che si riversa nella vita e nella storia. E quando venne la prima guerra mondiale d’Annunzio non si limitò a pronunciare vibranti discorsi interventisti e a incitare alla guerra nel nome della patria, ma in guerra ci andò davvero, compì azioni memorabili, diventò un mito e un esempio per i volontari, gli arditi, per gli interventisti. Non fu tra quegli scrittori dell’armiamoci e partite, ma partì, restò ferito, compì azioni eroiche e invenzioni ardimentose, fu un modello per tanti giovani. Era un D’Annunzio ormai maturo, cinquantenne. Un altro d’Annunzio, rispetto a quello del secolo passato, della Belle Epoque, fin de siècle. I d’Annunzio sono due, uno per secolo (ma possono essere duecento, considerando i territori versatili a cui si applicò). Fu il giovane Poeta del maturo ottocento, delicato e gaudente, di cui accompagnò il suo dolce spegnersi nelle braccia tempestose del secolo giovane che prendeva il suo posto. E fu il maturo poeta del giovane novecento; che d’Annunzio accese, con Il Fuoco, la sua opera del 1900, dalle cui fiamme e ceneri, come araba fenice, risorse superuomo e ne scaturì il soldato e l’esteta della guerra. Il filo conduttore fu il suo pensare in grande, la sua megalopsichia, ridotta dai posteri a megalomania o mitomania. Ma d’Annunzio fu mito vivente e seppe esserlo anche dopo, nel dorato eremo del Vittoriale, durante il regime fascista. Per salvarlo, dopo ottant’anni di maledizione, dicono che d’Annunzio non fu mai fascista, dalla sua costola era uscito persino un movimento antifascista che si chiamava, guarda un po’, Alleanza Nazionale. Ma è sciocco pensare che d’Annunzio eroe soldato ma ostile alla leva militare, potesse farsi intruppare in un regime. La questione è mal posta: d’Annunzio non fu fascista ma il fascismo fu dannunziano. Non sarebbe concepibile il fascismo senza d’Annunzio poeta, soldato, ardito, con i suoi discorsi, i suoi rituali, la sua liturgia civile, la sua impresa fiumana, la sua Carta del Carnaro (quella si che fu davvero la più bella Costituzione del mondo).
Resta il paradosso di d’Annunzio contrario alla leva militare. Ma non fu il solo. Molti scrittori di “destra”, esteti armati e cultori di miti eroici, furono nemici della leva. E’ uscito al proposito un bel saggio di Giuseppe Scaraffia, “Scrittori in armi” (ed. Neri Pozza), in cui sfilano fiori di letterati europei. E tra loro mostrano allergia all’uniforme, alla vita militare, scrittori audaci come T.E.Lawrence che definì la sua leva “un suicidio spirituale”; Pierre Drieu La Rochelle, Emil Cioran e Mircea Eliade che pure furono militanti del movimento legionario di Codreanu; Hugo von Hofmannsthal, L.F. Céline (“Ho pianto come una bambina alla prima comunione”, dice, sorprendentemente, a proposito della leva, il feroce scrittore maledetto). E prima di loro Friedrich Nietzsche, profeta del superuomo, ebbe un’esperienza negativa sotto le armi e reputò grossolana la figura del guerriero. Pure Yukio Mishima, lo scrittore soldato, eroico samurai che si tolse la vita con un suicidio rituale nel nome dell’Eterno Giappone, violato e alienato dall’americanizzazione, da ragazzo fu esonerato dal servizio militare perché aveva avuto la tubercolosi. All’opposto, uno scrittore lontano dalla visione eroica e militare, come Franz Kafka, aveva tentato di arruolarsi nonostante avesse pure lui la tubercolosi. Più stridente è il contrasto tra d’Annunzio e Proust, che noi figuriamo come un delicato scrittore da camera, lontano dal mondo e dai suoi conflitti. E invece Proust, nonostante la sua scarsa attitudine alla vita militare, va di buon grado sotto le armi, da volontario, e si reputa fiero della sua vita in uniforme. Ma d’Annunzio era così grande che conteneva dentro di sé moltitudini, anche opposte.
La Verità – 14 marzo 2023