Ma allora è finita o finirà l’egemonia culturale della sinistra, è stata o sarà sostituita dall’egemonia culturale della destra? La domanda circola in varie forme da quando c’è il governo Meloni. E rischia d’infognare ogni vero e proficuo discorso sul pensiero, la sua libertà e la sua qualità. Provo a esprimere nove brevi pensieri sul tema.
Uno. Per cominciare, perdura l’egemonia culturale della sinistra nel nostro paese, e non solo. Deriva dall’Intellettuale collettivo del vecchio Pci, dall’onda lunga del ’68 e dal vigente canone del Politically correct. Si estende a vari ambiti, tra cultura, arte, cinema, teatro, musica, accademie, comunicazioni, editoria. E stabilisce codici ideologici, temi da affrontare o vietare, attori autorizzati e altri ostracizzati. Potrei fare mille esempi. È un clima, una cupola, un intreccio di lobby, tuttora vigente, ha potere di veto e d’intimidazione, nonostante il governo di destra.
Due. Di contro non esiste e non può esistere un’egemonia culturale della destra. Non ne ha i caratteri, non ha i numeri e gli esponenti, non ha la forza, non ne ha l’indole e non ha nessuna strategia organica all’opera. Ogni piccolo tentativo naufraga per esiguità di risorse, vaghezza di propositi, scarsità di sostegni, inorganicità degli intellettuali ritenuti “di destra”. Al più piccole conventicole che cercano di trovare qualche spazio a livello individuale. E qualche bandierina retorica per illudere, figurare e consolare.
Tre. Che rapporto c’è tra le egemonie vere o presunte e la cultura, il pensiero, l’arte? Ci sono molte più cose in cielo e in terra della destra e della sinistra; la ricerca della verità oltrepassa le barriere e i rigidi schemini. Quando è grande la cultura, l’arte o la letteratura non si esaurisce dentro un’ideologia e un’appartenenza. Poi, certo, una cultura è connotata da alcune sensibilità, in tema di tradizione o di emancipazione, di memoria storica, di valori, di scelte e di principi. In questi ambiti si manifestano orientamenti diversi, che per approssimazione chiamiamo conservatori, progressisti, radicali, di destra o di sinistra.
Quattro. Un vero intellettuale è sempre “fuori formato” e fuori da ogni format politico; il suo sguardo, la sua visione, non si adeguano agli opportunismi contingenti della politica, agli interessi di parte, ai poteri, ai compromessi e alle trasformazioni necessarie per governare. Di conseguenza, sono in linea di principio preferibili gli intellettuali disorganici, che non fanno parte di lobby, sette o collettivi.
Cinque. Tutte le culture, impegnate o no, hanno diritto di espressione e di cittadinanza; vanno valutate solo in base alla qualità, all’importanza e alla bellezza dei loro frutti. Senza cancellare o privilegiare alcune sulla base del loro orientamento. Sarebbe già un grande passo avanti se prevalesse davvero questa considerazione su ogni altra. Liquiderebbe le cappe ideologie e le egemonie, premierebbe il merito e il talento.
Sei. Vige invece un monopolio della cultura mortificante; l’intera filiera passa da una rete ideologica e affaristica a cui si piegano case di produzione e distribuzione, autori, editori e sceneggiatori, attori e registi, scrittori e cantanti, istituzioni e accademie, ma anche giornali e recensori, giurie e impresari. Chi la pensa in modo diverso viene scoraggiato e alla fine cambia mestiere o cambia idea. Ovvero, si dedica ad ambiti più neutrali, meno “sensibili”; oppure alla fine si adatta al clima, cede, si allinea per sopravvivere.
Sette. La storia non ha una direzione unica, obbligata e prefissata e nessuno ne ha il monopolio. Va preferita un società politeista, plurale, sottratta alla tirannia del Pensiero Unico. Riconosciuto un perimetro di norme condivise e una reciproca legittimazione nel rispetto delle idee altrui, bisogna accettare un mondo inevitabilmente diviso, conflittuale. Nessuna dichiarazione di superiorità, di infallibilità, di supremazia, ma un costante sforzo di convivenza e coabitazione, nel confronto e nella competizione delle idee. Finora non è stato così.
Otto. Sarebbe un grande risultato se venisse finalmente sgonfiata e smontata la presunzione di superiorità della sinistra intollerante e fosse accolto un sano pluralismo delle idee e delle opinioni. Tutto questo ha un nome semplice: libertà. Si tratta di praticare sul serio la libertà, escludendo solo coloro che la calpestano, anche con la violenza. Non si tratta perciò di sostituire un’odiosa egemonia con un’altra di segno contrario, che sarebbe agli occhi di chi non vi si riconosce parimenti odiosa. Nè di sostituire l’esercizio mafioso del potere culturale da parte di un cosca ideologica con una cosca di segno opposto. Ma ripristinare la circolazione delle idee, il libero esercizio di confronto e di competizione tra visioni culturali opposte.
Nove. Con queste premesse e in questa situazione come dovrebbe comportarsi chi governa con il mondo dei media, della cultura e dello spettacolo? Lasciar correre, essere indifferenti, o censurare e frenare, o ancora cercare piccoli compromessi per sopravvivere? Meglio adottare criteri diversi. Il primo è premiare e incoraggiare l’eccellenza, la qualità, i migliori, a prescindere da ogni appartenenza. Il secondo criterio è allargare il più possibile l’offerta e il campo delle possibilità, i terreni neutrali e trasversali. Il terzo è incoraggiare temi, autori, versioni, progetti alternativi, col solo limite della qualità, in modo da favorire la nascita e lo sviluppo di racconti differenti, opposti alla vulgata dominante e ai suoi pregiudizi.
Libertà contro allineamento, qualità contro egemonia.
(Panorama n.18)
https://www.marcelloveneziani.com/articoli/nove-pensieri-contro-ogni-egemonia/