MARCELLO VENEZIANI: “Il Partito ordinò: cancellate Pavese”

Di Cesare Pavese c’è una biografia ufficiale e una sommersa. La versione canonica per le scuole e i mass media narra che Pavese fu scrittore antifascista, mandato dal regime al confino, importò il vento della libertà traducendo scrittori americani, si iscrisse al Pci, lavorò all’egemonia culturale della sinistra con Einaudi. La versione negata racconta invece che fu intellettuale solitario, disorganico, tesserato nel ’36 al Partito fascista, poi iscritto al Pci nel 1945 ma estraneo al suo dogmatismo, censurato in vita all’Einaudi e post mortem dagli intellettuali organici del Pci per il suo diario sconveniente, tenuto nascosto per ben 40 anni. A lui ho dedicato un’antologia di scritti sul mito (Pavese, Il mito) uscita in questi giorni da Vallecchi. 

 “Politicamente sospetto” fu il verdetto che Ernesto De Martino, il grande antropologo legato al Pci, emise in una lettera a Giulio Einaudi a quattro giorni dal suicidio di Pavese. Per lo studioso napoletano, Pavese aveva scritto “documenti assai gravi” che mostravano la sua “involuzione culturale”. La polemica  riguardava appunto la famosa collana viola di Einaudi. Pavese voleva pubblicare nella collana alcuni autori proibiti ed era contrario a far precedere i loro testi da “dieci pagine di mani avanti e di proteste antifasciste” come lui scrisse. Quando l’Intellettuale Collettivo lo attaccò, lui polemizzò coi “politici scientifici” e con “le velleità marxistiche dei nostri consulenti ideologici” come scrisse allo stesso De Martino. Il Pci faceva sentire il fiato sul collo dell’Einaudi, tramite Antonio Giolitti, Mario Alicata e Carlo Muscetta. Quando Pavese decise di pubblicare Eliade, il Pci tramite Ambrogio Donini intervenne su Giolitti: “I compagni rumeni ci segnalano che presso Einaudi dovrebbero uscire due libri dello scrittore controrivoluzionario Mircea Eliade…Sei al corrente della cosa?” Pavese, informato a sua volta da Giolitti che chiese ragione della scelta incauta, rispose “dovremmo smettere di pubblicare le opere scientifiche di Heisenberg perché questi è un nazista?” E a De Martino scrisse: “E’un po’ di tempo che mi rinfacciano criminali di guerra…che Eliade abbia fama di nazista non ci deve spaventare”. Quando Pavese si suicidò, Felice Balbo commentò: “Con la morte di Pavese venne a mancare l’ultimo residuo puntello dell’autonomia della Casa editrice”, trasformata in “terza forza paracomunista”.  

L’orizzonte di Pavese ormai divergeva dall’Intellettuale Collettivo, controllato direttamente da Togliatti: nella sua visione c’era il mito e non il materialismo dialettico, c’era Vico più di Marx, era attratto dal mistero del sacro nella natura e non dallo storicismo progressista; dalle langhe e non dalle fabbriche, dalla magia dell’infanzia passata e non dall’avvento del comunismo futuro; dialogava con gli dei, non con i sovietici. Ed era attratto dall’America, non dall’Urss. 

L’anno chiave in cui si acuiscono i dissensi col Pci è il ’48. Pavese scrive pagine umane, troppo umane sui morti fascisti ne La Casa in collina: “Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini: sono questi che mi hanno svegliato…anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue…al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Pubblica poi l’Antologia Einaudi, stroncata da l’Unità perché estranea al neorealismo marxista: troppa America, troppo irrazionalismo; critica che, secondo il canone di Lukàcs, equivaleva all’accusa di fascismo. Augusto Monti, il suo amato professore di liceo, lo trovò dannunziano, Lucio Lombardo Radice su la Rinascita togliattiana paragonò Pavese e Moravia allo scrittore collaborazionista Drieu La Rochelle (finito pure lui suicida), accusandoli di decadentismo. Mario Alicata, recensendo La luna e i falò, ne denunciò l’ambiguità, l’Unità stroncò La bella estate, ritenuta troppo intimista e borghese. Ancora Rinascita se la prese col saggio di Pavese in difesa del mito, apparso su Cultura e realtà, che costò al suo direttore, Mario Motta, la rottura col Pci: “Cosa può significare – scrive Rinascita togliattiana – sostenere che ciascuno può sperare in un paradiso soprannaturale, ma in un paradiso terrestre no, se non rovesciare la famosa direttiva programmatica di Lenin sull’unità di tutti i lavoratori per costruirsi sulla terra un avvenire migliore?”. Scomunicato. Contro Pavese si scagliò l’ex fascista e poi comunista Davide Lajolo, che pure gli dedicò un’ampia biografia. Anche Moravia si accanirà post mortem con il suo Mestiere di vivere, deplorando sulle colonne del Corriere della sera in una stroncatura dal titolo Pavese decadente: “la vanità infantile, smisurata megalomane” e “L’estetismo inguaribile”. Decadentismo, estetismo, irrazionalismo diventò il lessico della scomunica ideologica dell’Intellettuale Collettivo agli intellettuali eterodossi. Anche Alberto Asor Rosa gli dedicò un ritratto al veleno, posto come prefazione a Paesi tuoi.  

A 40 anni dal suicidio, nel 1990, Lorenzo Mondo pubblicò su La Stampa diretta da Paolo Mieli il diario rimosso di Pavese ai tempi della guerra. In quelle note Pavese si spingeva ad apprezzare il fascismo di Salò, il manifesto fascista di Verona per la socializzazione. Strizzava l’occhio perfino al Blut und Boden nazista, il mito del sangue e del suolo, seppure al di fuori di ogni razzismo; criticava l’antifascismo e lo scarso amor patrio.  Nei primi anni ‘60, Mondo aveva mostrato quei taccuini inediti a Italo Calvino, Raccontò Mondo che Calvino “impallidì” e piombò in un lungo silenzio. Suggerì di non darli alle stampe per evitare “le speculazioni volgari che avrebbero fatto”. Poi alla morte del Pci e di Calvino, nel 1990, quelle pagine vennero alla luce. Era caduto il Muro di Berlino, e di Calvino.

(Il Borghese, giugno)

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