Libertà è un racconto pubblicato da Verga, per la prima volta, nel 1882 sulla rivista Domenica letteraria e poi incluso nella raccolta Novelle rusticane. L’autore vi rappresentata i famosi drammatici “fatti” accaduti a Bronte, piccolo borgo rurale alle pendici dell’Etna, nei pressi di Catania, nell’estate del 1860 quando l’arrivo di Garibaldi in Sicilia e l’avvio della rivoluzionaria liberazione dell’isola operata dall’esercito garibaldino a discapito della reggente dinastia borbonica, animano gli entusiasmi delle popolazioni locali.
I cittadini di Bronte sono gli artefici di un tumulto popolare che scoppia un sabato di luglio nel paesino etneo. Mossa dal senso di oppressione e dal risentimento per l’annoso sfruttamento subìto, la popolazione si rivolta contro i “padroni” e sfoga su di loro un’atavica violenza covata da tempo, uccidendo barbaramente proprietari terrieri e professionisti appartenenti ai ceti benestanti del paese.
La novella esordisce con la suggestiva immagine di un tricolore sciorinato dal campanile della piazza sotto i rintocchi “a stormo” delle campane e dietro al grido di – Viva la libertà! -. Il ritmo incalzante delle prime battute alimenta un’azione vivace e convulsa che vede la folla inferocita presentarsi prima davanti al Municipio, contraddistinta dai caratteristici berretti bianchi che indossano i popolani, poi irrompere “in una stradicciuola” dove si scaglia, armata di scuri e falci, contro il barone, contro un prete e contro un agente della pubblica sicurezza.
Come il lupo “allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia” le sue prede, anche il popolo, man mano che procede impetuosamente e sbrandella le carni dei “galantuomini”, è mosso da un istinto animalesco a uccidere, più che da un bisogno legittimo di farsi giustizia.
La crudeltà dei “berretti” non si arresta nemmeno di fronte al figlio del notaio, Neddu, un ragazzo biondo di undici anni che “non voleva morire […] come aveva visto ammazzare suo padre” e perciò “fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare”. Travolto dalla folla, con la guancia sfracellata da qualcuno che gliel’ha calpestata, ancora nell’atto di implorare pietà con le mani, viene colpito violentemente dal taglialegna con la scure, come se questi “avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni”. – Bah! Egli sarebbe stato notaio, anche lui! – grida qualcuno. Ma d’altronde: “Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! Tutti i cappelli! -”.
Verga mostra con cruda efficacia come la collera della gente sia aizzata da un bisogno perverso di produrre naturalmente, senza esplicite finalità, violenza travolgente, in un contesto in cui la massa si muove sostituendo le capacità razionali individuali con un irrazionale e primordiale istinto collettivo di morte.
La violenza si placa soltanto a sera e prelude al giorno successivo, la domenica, quando alla rabbia succede un dimesso sconforto e una pacata consapevolezza che inducono a ripensare in maniera più costruttiva all’idea di libertà. Adesso il bisogno di giustizia tende a coincidere con il proposito di spartirsi le terre, che si presume vengano confiscate ai nobili, riscattandosi così dalla servitù a cui si è stati costretti in passato.
Al contempo, però, fa capolino l’egoismo dei singoli che, tra sé e sé, cominciano a farsi i conti sulla possibilità di arricchirsi, avvantaggiandosi di una situazione nella quale, adesso, il rivale dal quale guardarsi le spalle comincia ad essere il proprio vicino, il prossimo, colui al quale il giorno prima si era affianco nella confusione dell’assalto.
E si determina, inoltre, uno smarrimento che nasce dalla presa di coscienza dell’improvviso cambiamento di abitudini in quel paesino in cui ogni domenica si è sempre andati a seguire la messa e ci si è riuniti insieme in piazza. Adesso, invece, non ci sono più preti a dire la messa e non si sa nemmeno dove “andar a prendere gli ordini dei padroni per la settimana”, dal momento che “il casino dei galantuomini era sbarrato”.
La terza parte della novella è dedicata alla descrizione dei fatti del giorno ancora dopo, quando gira voce che in paese debba giungere “il generale che faceva tremare la gente” a mettere giustizia, cioè Nino Bixio, che accorre con il suo seguito di “camicie rosse”, cioè di soldati, che lo accompagnano.
La gente del paese si mostra inerme, incapace di reagire, di fronte allo spaventoso potere di quei nuovi “padroni”, i quali salgono su lentamente verso Bronte attraverso la stradina che porta al paese, da dove “sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti”. Ma gli uomini rimangono immobili sul monte ad osservare quei giovani stanchi con le camicie rosse mentre procedono “curvi sotto il fucile arrugginito”, e le donne, madri e mogli dei brontesi, disperate, strillano e si strappano i capelli, consapevoli del destino terribile che sta per abbattersi su di loro.
Una volta giunto in paese, la prima cosa che fa il generale è quella di dare l’ordine di far fucilare a caso una manciata di uomini, con le schioppettate degli spari che risuonano in sequenza nelle “viuzze più remote del paesetto” come se fossero i mortaretti fatti esplodere nel giorno di festa patronale.
Segue, poi, l’infinito tempo del processo, che continuerà per anni e anni, condotto dai giudici, i “galantuomini con gli occhiali”, che si rivela vero terribile effetto storico e ineluttabile conseguenza degli eventi della rivolta.
Pare superfluo sottolineare l’indiscutibile atteggiamento di condanna con cui l’autore pare rivolgersi nei confronti degli eventi narrati. L’efferatezza delle descrizioni e la forte drammaticità con cui esse si porgono agli occhi del lettore definiscono l’inaccettabile barbarità di un episodio da cui Verga si sente intimamente colpito. Non venendo mai meno all’impersonalità stilistica che contraddistingue il veristico inquadramento della verità effettuale degli eventi, che si presentano da sé, c’è chi ritiene, però, che l’autore abbia “calcato la mano”.
La posizione politica da intellettuale conservatore e monarchico, anche secondo il parere di Leonardo Sciascia, avrebbe spinto lo scrittore verista ad omettere certi particolari della vicenda di Bronte e a mistificarne i dati storici oggettivi.
Invero, l’onestà intellettuale di Verga pare inattaccabile, specie se valutata sul piano dell’indagine che l’autore conduce nei confronti della condizione umana universalmente intesa, a prescindere da particolarismi e da schieramenti ideologici. La vera natura degli uomini esce fuori nei momenti in cui essi assumono la condizione di “vinti”. Contadini rivoltosi e padroni, entrambi accomunati dal destino di essere prima vincenti e alla fine ridotti tutti a una condizione esistenziale di subordinazione e di sconfitta, nel momento prima della morte o della condanna definitiva rivelano debolezza nell’atto di soccombere all’oppressore.
Nella visione verghiana dell’esistenza, irrimediabilmente pessimistica e disincantata, sembra comunque potersi scorgere una forza regolatrice in grado di appianare le sorti umane e capace di esprimere una superiore verità. Si tratta dell’oggettiva precarietà di una vita nella quale ogni atto di rivolta, finalizzato all’obiettivo di cambiare materialmente la propria sorte, è destinato a fallire. La miseria è una condizione esistenziale che accomuna tutti. I vincitori sono tali solo provvisoriamente.
La libertà è una condizione irraggiungibile: in un ambiente primitivo, arretrato e non adeguatamente civilizzato, come quello presentato nella novella di Verga, gli individui non possono che nutrire in maniera solo illusoria e inconsapevole l’ambizione di un ribaltamento sociale; vieppiù, per libertà si intende, più opportunamente, una condizione di presa di coscienza intellettuale dei fatti del mondo, che in questa novella manca.
La scena che chiude il racconto coincide con l’immagine del carbonaro che, a fine processo, condannato a scontare la pena, balbetta sgomento dichiarando la propria incredulità di fronte alle guardie che lo ammanettano e ribadisce, ingenuamente, che non gli è “toccato neppure un palmo di terra”. Si stabilisce, cioè, una frattura incolmabile tra gli uomini che la storia la fanno e quelli che la subiscono.
Capire e capirsi è cifra di una conquista della storia nella misura in cui determina la capacità di non farsi sopraffare dagli eventi, in quanto nasce dal proposito di porsi nella condizione di acquisire consapevolezza di sé e degli altri, base fondamentale per determinare il proprio futuro.
‘Ntoni, che nel momento conclusivo dei Malavoglia afferma questa sua acquisita consapevolezza, pur non potendo cambiare le sorti, si pone già fuori dallo schema perverso della storia che come un fiume in piena travolge gli inconsapevoli e li trasporta alla deriva.
Rimangono, poi, da determinare con precisione, rispondendo alla necessità di individuarle con una veridicità storica forse non ancora raggiunta, le vere responsabilità degli artefici di un’epoca risorgimentale irta di contraddizioni e di ambiguità. E su quest’ultima questione sarà il caso di tornare con maggiore consapevolezza.
A Verga non importava ricostruire una vicenda storica ed essere preciso nei fatti e nelle responsabilità di quei tragici giorni. Egli ha usato una vicenda storica per esemplificare la sua poetica in cui dominano passioni ancestrali e irrazionali, per giunta in un ambiente primitivo , pregno di suggestioni arcaiche.
Ed è indubbiamente poetico il valore che assume l’opera. Verga non vuole denunciare, esatto. Sarebbe limitativo. La letteratura svela qualcosa di più profondo.
La libertà di Giorgio Bongiorno (2011)
Viva la libertà
Suonano le campane
Come il mare lontano della tempesta
Spumeggia sulla battigia
Chiesero ai galantuomini
Ai signori
Agli sbirri
A Neddu il figlio del notaio
Ai preti ed alle streghe
E al resto dei prepotenti
Il perché di tutto quel soperchiare e succhiare l’anima
Vollero gustare la carne della baronessa
Quella nutrita di pernici e di vino buono
Prima di randellare i campieri
E chiudere gli usci della notte
Sui boschi dell’Etna e su quel macabro carnevale
Di morte
Libertà é pane per tutti
Vuol dire che ci sarebbe stata festa
Sul sangue di quei malvagi
Il generale arrivò
In paese il giorno dopo
Ne fece fucilare prima cinque o sei
Così
Alla rinfusa
Contro il muro del cimitero
I giudici compirono l’opera
Dei soldati
Dietro le lenti dei loro occhiali
Facendo portare in città la marmaglia rimasta
E discutendo tre lunghi anni sulla loro
Sicura pena
Le manette del carbonaio e dei suoi compaesani
Disegnarono una volta per tutte
Il segno della libertà
Quella vera
Quella dei galantuomini
Onesti
Con il berretto in mano
***
È così: la libertà non esiste, caro Giorgio. Hanno perso tutti, vincitori e vinti.