In una notte stellata, due giovani amanti rivolgono al mare, che si estende immenso e scuro di fronte a loro, uno sguardo malinconico e assorto nei pensieri. Essi si trovano vicino alla loro cabina, mentre il sottofondo musicale di un canto popolare proveniente dalla poppa del battello sul quale viaggiano, si confonde con il rumore del motore.
Prima di darsi commiato in vista del riposo notturno, in quegli ultimi lunghi attimi che precedono la solitudine del sonno, lei pare incapace di risolversi a lasciarlo, e continua a ripensare alla sera precedente. Mentre si tengono mano nella mano, le vivide emozioni provate insieme e ancora presenti nella loro mente si accompagnano al mistero dell’oscurità che avvolge tutto.
E lei si abbandona per un poco a immaginare esistenze sconosciute nelle profondità degli abissi o in mondi lontani tra le stelle di Orione, mentre la mesta cantilena che ancora risuona sul pontile e che narra a «modo suo di gioie, di dolori, o di speranze umili, in mezzo al muggito uniforme del mare», dà un senso di eternità che si spande nell’immobile fissità di quel momento.
Ultimo racconto della raccolta Novelle rusticane, è questo lo scenario iniziale con cui si apre Di là del mare, la cui narrazione si sviluppa per intero attraverso il molle intrecciarsi di ricordi, di emozioni e di sguardi, nonché di paesaggi rurali, marini e urbani. Lontano dall’ambientazione prettamente contadina delle altre novelle, privo del carattere ruvido della denuncia sociale, il racconto ha come protagonisti due personaggi borghesi e parla di un amore adultero, quello tra un ragazzo e una giovane donna sposata, che rimangono entrambi anonimi.
Verga rinuncia all’indiretto libero e all’oggettività della rappresentazione narrativa tipicamente verista per abbracciare tonalità più intime che proiettano il racconto nella prospettiva soggettiva dei sentimenti dei due protagonisti. Ma il risultato che se ne ricava non è quello di un racconto d’evasione o di una storia d’amore.
Così come in Fantasticheria, novella introduttiva di Vita dei campi, in Di là del mare i veri elementi tematici della vicenda narrata sono i personaggi e le storie di tutte le altre novelle, ai quali si allude o ci si riferisce trasversalmente, attraverso lo sguardo al paesaggio contemplato a distanza, durante il viaggio in mare o, dopo, tramite il ricordo.
Si realizza in Di là del mare un ritorno all’uso del “cannocchiale” che Verga in Fantasticheria suggeriva di rimpiazzare con “il microscopio” con cui restringere il campo visuale all’interno di “due zolle”.
La consapevolezza acquisita del mondo dei piccoli e dei suoi fatti, a conclusione di un percorso che ha condotto il lettore all’interno di una realtà di cui si sono narrate vicende ed eventi, permette all’autore di riabilitare quell’ottica ampia e generale che adesso fa apparire i personaggi di Novelle rusticane delle «larve sinistre» quasi leggendarie.
Ciò che Verga intende comunicare è l’immodificabilità del destino che il paesaggio siciliano cesellato dalla natura rappresenta, imperturbabile nella sua solennità e indifferente all’uomo. Una coscienza disillusa del carattere di fissità della Storia sottende l’idea, di leopardiana memoria, di uno scorrere del tempo che procede dimentico dei vinti. Le vite degli uomini passano, ciò che rimane è il paesaggio «solenne e immutabile […], colle larghe linee orientali, dai toni caldi e robusti. Sfinge misteriosa, che rappresentava i fantasmi passeggieri, con un carattere di necessità fatale».
Nel paesello nessuno si ricorda più delle lotte sanguinose che erano state condotte e che avevano sconvolto la tranquillità della vita di tutti i giorni. «I figli delle vittime avevano fatto pace cogli strumenti ciechi e sanguinari della libertà».
E anche «i vasti campi di Mazzarò, i folti oliveti grigi su cui il tramonto scendeva più fosco, le vigne verdi, i pascoli sconfinati» come sempre «svanivano nella gloria dell’occidente, sul cocuzzolo dei monti; e dell’altra gente si affacciava ancora agli usci delle fattorie grandi come villaggi, per veder passare degli altri viandanti. Nessuno sapeva più di Cirino, di compare Carmine, o di altri».
E così anche i due giovani amanti della novella, dopo essersi giurati amore eterno, dopo essersi detti entrambi di voler rimanere uniti per sempre, devono cedere al destino e si separano. L’agente imperscrutabile e incontrovertibile di questo volere non è più il condizionamento economico che regola l’esistenza, non è più «il bisogno del pane» né tantomeno la dignità ferita del legittimo marito della giovane, «il coltellaccio del geloso».
È «qualcosa di più sottile e di più forte» a separarli. È la vita stessa di cui e da cui entrambi sono fatti. È il senso della realtà che ammutolisce i sogni, senza spegnerli. Ciò che rimane e che resiste al tempo è il ricordo che, tuttavia, non può realizzarsi perché nel frattempo la vita è andata avanti e solo i pensieri sono rimasti indietro.
I due hanno persino l’occasione di un ulteriore ultimo incontro, a distanza di tempo, a fine racconto, per rivedersi e per tornare a sentir battere il loro cuore. Eppure non è più la stessa cosa. «Essi avevano assaporato il frutto velenoso della scienza mondana» che ha tolto loro qualcosa. Adesso hanno entrambi il disincanto della consapevolezza, quella che nella condizione umana subentra «quando non si sa piangere più».
Nessuno dei due ha il coraggio di pronunciare la domanda che viene loro in mente, per istinto, di proferire: – Ti rammenti? – Pur continuando a tenersi per mano, allora, si separano con quest’ultimo triste saluto, prima che lei, l’indomani, salendo sul primo treno, riparta per la grande città.
Il tuo commento è sempre acuto e preciso, ma il racconto di Verga, che non ricordo, non dovrebbe essere dei migliori. Lo andrò a rileggere quanto prima.
A me ha affascinato, ne sono rimasto colpito proprio per il differente stile che non rinuncia, però, a sostanziare ulteriormente le prospettive disilluse di un mondo da ricostruire. Il tema di un amore infelice nell’indifferenza di un tempo che va avanti nonostante tutto, non poteva non conquistarmi.