È cominciata la rivoluzione conservatrice, a partire dal luogo in cui iniziò il bigottismo progressista del politically correct? Nemesi storica, la rivoluzione conservatrice parte proprio dai magistrati, in questo caso i giudici della Corte suprema degli Stati Uniti; i magistrati sono stati e sono tuttora, soprattutto in Europa, le avanguardie del radicalismo giacobino a colpi di sentenze woke. Come forse sapete, la Corte suprema americana, contrastando la linea Biden, ha bocciato come illegittimo l’architrave delle politiche progressiste; il cosiddetto affirmative act che forzando i meriti e le capacità individuali, introduceva un sostegno speciale per le minoranze etniche svantaggiate, a partire dagli afroamericani.
Un criterio esteso ad altre categorie contigue o parallele, ritenute svantaggiate: dai migranti alle donne (le cosiddette quote rose sono il suo riflesso più vistoso), dagli ex detenuti ai “discriminati” per ragioni sessuali (gay, lesbiche, queer).
Il principio ideologico su cui si fonda l’affirmative action è che la legge non deve essere uguale per tutti ma deve correggere le disparità naturali e sociali (politically correct), rimuovere le differenze “culturali” (cancel culture), e favorire coloro che partono svantaggiati rispetto ai capaci e meritevoli.
In verità, la questione specifica su cui è insorta è limitata e controversa: riguarda il suo riflesso economico, ovvero la riduzione dei debiti universitari degli studenti afro-americani o comunque indigenti, decisa da Biden senza passare dal Congresso, nel nome del sostegno alle minoranze svantaggiate. Ma al di là del caso specifico e discutibile, la novità è che per la prima volta viene sancita un’inversione di tendenza che rimette in discussione la madre di tutte le politiche progressiste: i meriti e le responsabilità individuali non possono essere cancellati solo perché appartieni a una “minoranza svantaggiata”. Il merito di questa svolta è politico: quand’era presidente Donald Trump nominò tre giudici “conservatori” per riequilibrare gli orientamenti ideologici progressisti della Corte Suprema. E si vedono gli effetti, anche sulle questioni legate al diritto alla vita e all’aborto.
Accettare la meritocrazia significa arrendersi alle diseguaglianze sociali e naturali? Il filosofo progressista Michael Sandel è un nemico dichiarato della meritocrazia. Nel suo libro La tirannia del merito, tradotto in Italia da Feltrinelli, ha criticato la deriva inegualitaria del merito e ha difeso l’ideologia dell’affirmative action. Da una parte abbraccia la “fumosa” istanza della diversity, ossia le diverse provenienze sociali e culturali sarebbero una ricchezza da tutelare. Dall’altra sostiene una sorta di risarcimento storico retroattivo per ripagare gli afroamericani dalle ingiustizie subite nel passato schiavista. Immettiamo i due criteri nella realtà: tra uno studente più capace e meritevole e un afroamericano, bisogna dare la precedenza a quest’ultimo perché è portatore di una “ricchezza” culturale e va risarcito perché i suoi avi furono schiavizzati. La giustizia non giudica più cosa hai fatto, se sei bravo e studioso, ma valuta la tua provenienza etnica, la tua condizione sociale, i disagi patiti dai tuoi avi, il colore della tua pelle. Ma si supera davvero ogni discriminazione razziale se è irrilevante l’appartenenza etnica e si giudica solamente sulla base del lavoro effettuato e delle capacità personali. Nelle università americane conta pure se hai un genitore laureato nella stessa Università; anche questo tipo di discriminazione non dovrebbe avere effettiva incidenza, così come quello etnico. Può far piacere la continuità famigliare o l’emancipazione di chi proviene da una famiglia povera; ma in entrambi i casi il merito, la capacità, la tenacia negli studi, restano i veri criteri di giudizio. E non solo per una questione di principio e di giustizia, riconoscendo a ciascuno il suo; ma anche per una questione pratica, civile e sociale. Se una società non sa riconoscere e premiare i migliori, se la piramide sociale non è fondata sui meriti e sulle capacità, sulla serietà e la proficuità negli studi o nel lavoro, è destinata alla decadenza. Il catechismo woke è la più grande fabbrica d’ingiustizie, demotivazioni e peggioramento del tessuto sociale; mortifica il valore, le competenze, premia i rancori e ne alimenta altri, di segno opposto; e adotta un criterio ideologico al posto della responsabilità e l’efficacia.
E da noi? I problemi storici della nostra società non sono quelli della società americana, non abbiamo alle spalle lo schiavismo, la deportazione dei neri e nemmeno il genocidio di popolazioni autoctone. Da noi, il bigottismo progressista poggia su altre basi: il catto-comunismo con la sua ideologia egualitaria e pauperista e il radicalismo antimeritocratico venuto dal ’68. C’è una cupola ideologica e giudiziaria e una rete di associazioni e movimenti che mirano proprio a “correggere” la realtà, la natura, le differenze individuali e sociali, nel nome di “soggettività” ritenute svantaggiate.
In realtà la vera disuguaglianza da rimuovere o quantomeno da bilanciare, è quella di partenza: non è giusto impedire in partenza l’accesso a una scuola o università per ragioni di censo. Ma non è giusto nemmeno preferire poi gli “svantaggiati” ai capaci e meritevoli. Certo, le condizioni di partenza non si appianeranno mai del tutto, non tutti avranno le stesse opportunità, ma quantomeno si dovranno temperare il più possibile le disparità originarie; così la selezione, dovrà tener conto – a parità di meriti – di chi è partito da posizioni più svantaggiate. Ma la linea maestra dev’essere il riconoscimento dei meriti e delle capacità.
Sconfiggere quel totem ideologico woke è un passo avanti per tornare alla realtà, per incoraggiare chi fa il suo dovere e per frenare la decadenza della società. L’utopia del mondo migliore genera mostri; accontentiamoci di non peggiorarlo.
La Verità – 2 luglio 2023