MARCELLO VENEZIANI: “Io amo Io, ossia sposarsi con se stessi”

In origine era la famiglia numerosa. Poi venne la famiglia simmetrica e quadrangolare, padre madre figlio e figlia. Quindi la famiglia con figlio unico. Si passò poi alla coppia senza figli, anche dello stesso sesso. Poi fu varata la famiglia mononucleare, composta da un solo membro, il single. Adesso siamo arrivati alla sologamia. Di che si tratta? Il single si ama a tal punto che decide di convolare a nozze con se stesso e sposarsi con un rito ad hoc. Matrimonio narcisistico, potremmo dire, celebrato allo specchio, in un selfie. Garanzia di indissolubilità. Un’installazione di Elena Ketra al Gazometro di Roma ha figurato una donna che sposa se stessa, con tanto di marcia nuziale. A Kyoto esiste il self-wedding per singoli che amano se stessi al punto da prendersi in sposo/a; conta “lo stare bene con se stessi”, imperativo assoluto della nostra epoca. L’artista la motiva a contrario come una forma di “inclusione sociale” giacchè “amarsi è necessario per poter amare in modo libero ogni altro essere umano”.
Quel matrimonio onanistico, autoreferenziale, in cui si è sposo, sposa e figlio della propria unione, è una esibizione simbolica; portata all’estremo, rappresenta la tendenza e lo spirito della nostra epoca.
A conferma di questa tendenza ad amare se stessi sopra ogni cosa, e considerare lo “star bene con se stessi” come l’unico vero fine e requisito per l’esistenza, si possono citare altri due fatti concomitanti. Uno è il congelamento degli ovuli, o dei semi, che nasce da una motivazione originaria comprensibile: se sono single e temo che con gli anni perderò la fecondità, cerco di mettere in salvo la mia possibilità di riprodurre, per consentire – in caso di unione fuori tempo massimo per il mio corpo – di avere ugualmente figli. Ma l’ideologia sottostante al congelamento non è l’impulso alla maternità e tantomeno il desiderio di fare famiglia e coronare l’unione con un consorte; ma la possibilità di autoriprodursi, di lasciare in banca, congelato, la propria virtuale riproduttività, come si congelano anche corpi malati e senili che sperano di poter “risorgere” alla vita quando si troveranno le cure giuste per superare quella malattia ora mortale. Sentitele le single che depositano ovuli nella banca del futuro: è un modo per perpetuarsi, per lasciare lo stampino di se stessi, garantirsi se non l’immortalità, una possibilità di replicarsi ed eludere la mortalità.
Ancora una volta la religione, la filosofia di vita che traspare in queste scelte è lo sconfinato amore per se stessi, e l’inclinazione a pensare il partner non come colui col quale si desidera dividere la vita, giurarsi e praticare amore reciproco, e coronare la propria unione con uno o più figli; ma come l’inseminatore occasionale, il fuco rispetto all’ape regina, ossia il semplice donatore di seme che serve per ingravidare e consentire alla donna autarchica di riprodursi. Non un figlio, dunque, quanto una replica di se stesse, un modo per rigenerare il proprio io e i propri geni.
Per coronare questa visione autarchica e autoreferenziale della vita, consideriamo infine un altro aspetto, recentemente ribadito da una sentenza della magistratura. E’ possibile mutare la propria sessualità e tutto quello che ci identifica, comprese le generalità, semplicemente con un’autocertificazione o un’autopercezione. Lo ha stabilito una sentenza recente del tribunale di Trapani: si può cambiare sesso senza operazione chirurgica o mutazione ormonale, ma per un “puro” desiderio di farlo. Per cambiar sesso non c’è bisogno nemmeno di sottoporsi a un’operazione in modo da mettere anche la legge con le spalle al muro davanti a un’evidente mutazione genetica; basta sentirsi di un altro sesso per modificare i propri dati anagrafici e la propria identità sessuale.
Se la legge non parte dalla realtà oggettiva e da quel che noi siamo secondo evidenza e natura, ma deve sottomettersi a ciò che noi vogliamo essere, allora non solo la percezione del sesso dovrebbe costituire motivo sufficiente per la mutazione dei dati. Ma anche la percezione anagrafica: se io mi sento trent’anni di meno, vivo, vesto, penso e sono come un ragazzo, o se mi sento più africano o asiatico che italiano, perché non riconoscere la variazione d’età o di etnia rispetto a quel che dice la mia anagrafe? Un tema che avevamo già posto provocatoriamente in un controcanto paradossale di un anno fa. E che potrebbe estendersi oltremisura: se mi sento cinghiale, potrà bastare la mia percezione e la mia volontà di ungulato per decretare il mio cambiamento anagrafico e statutario? O l’umanità non può essere revocata, per la semplice ragione che non sarebbe mai possibile l’inverso, ovvero la domanda di un cinghiale di essere riconosciuto umano? Per avanzare una tale richiesta e manifestare la tua volontà devi essere almeno umano, non appartenere al regno animale, vegetale o minerale.
Naturalmente sono paradossi, resta però il principio di fondo: non conta più la realtà e la sua evidenza, la natura e la fisiologia, anzi non conta più l’oggettività; conta il soggetto, il suo sentire e volere soggettivo. Qui torniamo al punto di partenza: Io sono quel che voglio essere, se decido posso perfino sposarmi con me stesso, e riprodurmi in modo autarchico, usando il seme altrui come concime anonimo, impersonale. Io amo io, e basta.
Resta solo una domandina per voi: siete contenti di questa conquista, alzate le spalle dicendo che i tempi mutano, o vi rifiutate di accettare la fine ingloriosa dell’umanità, della natura, del buon senso e della civiltà?

(Panorama, n.31)

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