MARCELLO VENEZIANI: “Dove nasce la destra sociale”

Ma che bestia misteriosa è la destra sociale? Ne riparlano, dopo lungo silenzio, i giornali a proposito dell’idea di Giorgia Meloni di tassare gli extraprofitti delle banche. Di primo acchito era sembrata una mossa per spiazzare la sinistra e i grillini, proponendo una norma che era diventata un loro slogan di battaglia. Poi è apparsa uno sfregio ai liberisti, e qualcuno aveva cercato di soffiare sul fuoco di una divergenza tra la componente liberale e “mercatista” e quella ex-missina e “statalista” del governo.
Ora si parla di dottrina sociale della destra, si fanno le analisi ma si ignora la sua storia e i suoi presupposti. Se cercate un padre e un fondamento umanistico prima che filosofico a quella dottrina sociale, lo ritrovate in un autore e un testo che poi si rivelò un testamento, scritto nell’estate del 1943 da un filosofo che pochi mesi dopo sarebbe stato assassinato. Parlo di Genesi e struttura della società di Giovanni Gentile. Scatta subito l’allarme: eccolo, è il filosofo del fascismo alla base della cosiddetta destra sociale. Dubito che Gentile sia stato letto e compreso anche a destra, ma non è questo il punto. Quel libro non è il canto del cigno del fascismo, scritto nei giorni in cui era caduto il regime e non era ancora nata a Salò la Repubblica sociale. Ma è un libro postumo. Postumo a Gentile, postumo al frangente storico della guerra e della guerra civile, postumo al fascismo. Che non è nemmeno citato nel testo: si allude alla sua esperienza come se fosse ormai conclusa, consegnata alla storia. Postfascismo.
Finiva l’estate del ’43, l’ultima estate di Gentile. Fuori era tempesta, Mussolini era prigioniero a Campo Imperatore, i bombardamenti alleati e poi i rastrellamenti tedeschi martoriavano l’Italia. Gentile si era ritirato a Troghi, frazione di Rignano sui colli dell’Arno, e lì riscrisse nella calura d’agosto e poi nel primo autunno settembrino gli appunti del suo corso universitario dell’anno precedente. Scrisse di getto quell’opera poi diventata il suo testamento filosofico, civile e metapolitico; pervasa da un forte senso religioso affrontava per la prima volta il tema della morte e dell’immortalità. A tratti era struggente, quando filtrava il dramma personale e nazionale (aveva perso da poco un figlio amatissimo e geniale) ma si proiettava con lucidità visionaria oltre il fragore degli eventi.
Gentile aveva allora sessantotto anni, alle spalle una vita feconda e generosa, sovrabbondante di opere non solo nel senso degli scritti filosofici. C’erano le sue grandi realizzazioni da ministro della pubblica istruzione e poi da impresario di cultura, dalla riforma della scuola all’Enciclopedia italiana Treccani, dalla Normale di Pisa all’Accademia d’Italia, dall’Istituto nazionale di cultura fascista all’Istituto di studi mediterranei ed orientali. Eppure si era attirato attacchi veementi come nessun altro filosofo. Strana sorte per un uomo di potere in una dittatura. Aveva una famiglia unita e numerosa e una rete di allievi e docenti messi da lui in cattedra; prima devoti, poi in gran parte ingrati.
Genesi e struttura della società è un “saggio di filosofia pratica”, dice lo stesso Gentile, pietra miliare della filosofia sociale. Qui è il passo famoso: “All’umanesimo della cultura che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro”. Il lavoro non è in Gentile solo produzione e fatica ma attività etica e riscatto spirituale: “l’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il valore è il lavoro”. Nella definizione dello Stato Gentile rivendicava la continuità col pensiero liberale e conservatore; con l’umanesimo del lavoro, invece, riprendeva l’eredità del socialismo, del sindacalismo e della dottrina sociale della Chiesa. La sintesi gentiliana è lo Stato nazionale del lavoro. L’umanesimo del lavoro fu il convitato di pietra della Costituzione italiana del ’48. La repubblica fondata sul lavoro già nel primo articolo della Carta eredita l’umanesimo del lavoro, che si sparge tra le forze socialiste e comuniste, cattolico-popolari e sindacali, oltre che nel nascente Movimento sociale italiano. In Genesi e struttura si profila il suo pensiero comunitario: la comunità non accomuna solo i viventi ma chi ci ha preceduto e chi ci seguirà. Il filo della “tradizione”. La filosofia ne è la sua coscienza: “In fondo all’Io c’è un Noi; che è la comunità a cui egli appartiene, e che è la base della sua spirituale esistenza, e parla per sua bocca, sente col suo cuore, pensa col suo cervello”. “La comunità è presente come legge interna all’individuo”. Il materialismo, invece, era per lui “il crollo di ogni moralità”.
A differenza del comunismo e del platonismo, Gentile richiama in questa visione sociale il ruolo centrale e insostituibile della famiglia. L’uomo è famiglia, dice il filosofo, egli lavora per sé ma anche per i suoi figli, l’istinto alla generazione muta in vocazione e si perpetua tramite l’eredità. E in un bellissimo passo scrive: “Lì è la radice del senso dell’immortalità, onde ogni uomo s’infutura e spezza la catena dell’attimo fuggente”. Per Gentile la famiglia è il “perenne vivaio morale dell’umanità”. Colpisce il tono sereno, fiducioso, costruttivo dell’ultimo Gentile, nonostante il clima dell’epoca e la tragedia in atto; un pensiero tenacemente positivo, rivolto al bene e alla concordia, in piena tempesta bellica, in mezzo all’odio. Cercatore di vita davanti alla morte, scrivemmo curando l’introduzione all’opera.
Se cercate un padre e un manifesto della “destra sociale”, ammesso che abbia un senso usare questa definizione, è lì, in un’opera che proviene dal passato più lacerante ma rivolta al futuro più distante dagli odii e i furori di una guerra. Poi l’uomo Gentile perirà con la storia di cui fu protagonista; ma l’idea andrà oltre lui e loro, i fascisti, gli antifascisti, i comunisti, i liberisti. Quell’opera di ieri ci aspetta al largo di domani.

La Verità – 14 agosto 2023

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