DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Gadda e la legittimazione della guerra nei suoi scritti giovanili.”

L’esperienza della Grande Guerra viene vissuta da Carlo Emilio Gadda in prima persona. Lo scrittore milanese si arruola come soldato volontario all’età di ventitré anni e parte per il fronte. Forse non c’è da stupirsene, considerando come Carlo Emilio sia cresciuto all’interno di una famiglia della quale fece parte una personalità come quella dello zio Giuseppe Gadda, il quale si era distinto positivamente in battaglia, partecipando alle guerre di indipendenza per la formazione del Regno d’Italia.

Gadda riconosce la guerra come un’occasione irrinunciabile per giungere a una ricostruzione identitaria di sé. Sia a livello soggettivo, sia sul piano delle istanze di tutta la Nazione, lo scrittore accetta entusiasticamente di partecipare a un’impresa che egli ritiene idealmente funzionale a portare a compimento gli eventi avvenuti durante il Risorgimento.

Il passato di glorie al quale la famiglia Gadda ha preso parte rappresenta, per lo scrittore milanese, un modello tattico a cui rivolgersi e da mettere in pratica dal punto di vista militare, nonché una fonte di ispirazione politica e ideologica.

Il senso di ordine e di disciplina, qualità da mantenere salde nelle azioni militari, rappresenta il nucleo fondante attorno al quale ruotano le pagine del Giornale di guerra e di prigionia, diario redatto dallo scrittore durante gli anni trascorsi al fronte e che verrà poi pubblicato nel 1955 e, in un’edizione più completa, nel 1965.

In uno degli episodi con cui il testo esordisce, lo scrittore formula un’invettiva nei confronti di un colonnello dell’esercito italiano, colpevole di aver commesso un grave errore strategico e responsabile dell’atto solo superficialmente coraggioso di aver sacrificato la propria vita per la patria:

«A me mi vien voglia di regalargli del porco, se ciò fosse vero: la patria, o bestia porca, non vuole la tua vita per il gusto di annoverare un valoroso in più: vuole la tua costante vigilanza, il tuo pensiero, la tua riflessione, l’analisi, il calcolo. […] potevi vincere e romper le corna al nemico, e hai perduto credendo di far il Leonida. Non abbisogniamo di Termopili, vogliamo Magenta e Solferino».

Gadda mostra un orientamento di rifiuto nei riguardi della vana ostentazione del sacrificio come atto di eroismo. La morte è da accettare solo come effetto collaterale, non come fine delle proprie azioni. Non deve risultare determinato dalla fortuna ciò che, invece, deriva esclusivamente da un calcolo e da una strategia ben elaborati.

Lo scrittore dimostra un approccio in grado di soppesare con razionalità scientifica le componenti tecnicamente più determinabili delle azioni militari, piuttosto che gli slanci vanagloriosi o le passionalità romantiche che animano ardori improduttivi. Magenta e Solferino erano state le due vittorie meno garibaldine dell’impresa risorgimentale: esse erano risultate il frutto dell’elaborazione di una tattica ben congegnata.

La prospettiva che Gadda segue è di tipo morale ed è tale da configurare il senso del dovere come il vero sentimento che deve stare alla base dell’azione da intraprendere: atti di abnegazione sono quelli dei soldati che dedicano impegno e sacrificio alla causa guerresca senza scadere mai in un inutile eroismo; nessuna retorica è accettabile in un’ottica pragmatica e in una prospettiva che esalta la misurabilità geometrica e matematica dell’equilibrio e dell’efficacia delle azioni.

L’esperienza della vita da soldato rende Gadda consapevole di una condizione che fortifica ulteriormente le alte idealità dei presupposti che stanno alla base della guerra. Essa è un evento che rappresenta simbolicamente tutta l’esistenza.

Gadda giunge a elaborare il concetto di “guerra” proprio in quanto situazione che concilia le esigenze della soggettività, cioè di un io umano e letterario che vuole realizzarsi nel mondo, e quelle della collettività, cioè di una dimensione sociale che si caratterizza come Nazione.

La sintesi ideale di questo incontro tra io e collettività viene assunta nella dimensione di «una vivente Patria, come nei libri di Livio e di Cesare». La Patria identifica una condizione realizzata, e quindi già acquisita e da difendere e, al contempo, si qualifica come progetto, cioè come dimensione in divenire e da conquistare. La guerra rappresenta l’evento che concilia e contempera queste due esigenze: l’essere e l’idea, il fatto e il farsi.

Nella Meditazione milanese, opera redatta negli anni Venti, questo concetto viene formulato da Gadda attraverso un’argomentazione raziocinante e logica. Per spiegare il funzionamento del sistema della realtà, lo scrittore elabora un ragionamento all’interno del quale l’agire umano nel mondo rivela il suo potenziale intrinsecamente creativo. Gadda fa notare che un sistema funzionante è un sistema naturalmente in grado di emendarsi e di rigenerarsi, cioè di divenire.

Assunto come “n” il sistema così com’è, il proposito deve essere quello di intervenire all’interno di esso accrescendolo e arricchendolo, al fine di approdare a “n+1”. Il bene è l’ascesa progressiva e in positivo attraverso la quale si tende a un fine, cioè a un miglioramento. Rimanere allo stadio “n” e accettare l’equilibrio iniziale vuol dire, invece, contravvenire all’impegno di agire e non assumersi il rischio di realizzare le possibilità del miglioramento. Siffatta scelta indica, cioè, l’avvento del male che coincide, per il giovane Gadda, con il rifiuto di un “meglio” e con la negazione di una Patria in divenire.

Dal ragionamento dello scrittore si evince una valutazione positiva della guerra in quanto atto di conquista e di espansione, non semplicemente di difesa. Tale posizione fa percepire il portato idealistico che si associa alla giovinezza dell’età del soldato, proteso ad attuare un’azione pratica che rappresenti il coronamento del bisogno personale e collettivo di giungere a una realizzazione di sé.

Gadda, però è anche un giovane uomo traumatizzato e, in qualche modo, già consapevole dei problemi che hanno determinato la propria condizione di disagio e di difficoltà esistenziale e psicologica.

Ricche di momenti di autovalutazione e di sfoghi amari sono le pagine che Gadda scrive in questi anni. Nel brano Impossibilità di un diario di guerra, incluso nella prosa pubblicata nel 1934 con il titolo Castello di Udine, pur riconoscendo la guerra come una necessità nazionale, egli confessa di essersi reso conto di quanto essa sia stata dolorosa e dura da affrontare.

Gadda dice chiaramente di riconoscersi come un uomo «anormale, un […] mostro di natura». Lo scrittore ammette: «in guerra ho passato alcune tra le migliori ore della mia vita, di quelle che m’hanno sole dato oblio e completa felicità, di quelle che vorrei rivivere, mentre non vorrei affatto rivivere né le mediocri festicciuole da ballo di cui la sciocca alterigia borghese circondò la mia adolescenza di ragazzo mal vestito, né i pranzi-penitenza stile ’900 a cui talvolta m’invitano con l’aria di farmi un onore».

Il concetto di guerra come riscatto individuale e, addirittura, come fonte di piacere e di felicità viene comunque presto contraddetto. Gadda si rende conto di quanto le miserie della guerra siano tali da condizionare profondamente gli stati d’animo, i bisogni e le necessità degli individui che vi partecipano. Egli riferisce condizioni di esistenza che afferiscono a un’umanità costretta a impoverirsi spiritualmente.

«Desidererei dedicare qualche ora all’attività intellettuale, ma non ho libri, non ho nulla; vorrei studiare il tedesco. Anche mi venne l’idea di principiare la trama e lo sviluppo ideologico di un romanzo che rumino da tempo, ma la mancanza di ore libere, e soprattutto la scarsa eccitabilità emotiva del mio spirito in questi giorni, mi consiglia a rimandare».

Lo scrittore lamenta, cioè, lo svilimento intellettuale causato dall’accettazione di quella condizione di disumanità in cui si riduce la vita da soldato. Pur partecipe della vita del fronte, egli non smette mai di percepirsi come un intellettuale, cioè come uomo di un altro livello rispetto a quello dei suoi commilitoni. Gadda contravviene, così, all’identità di intenti tra singolo e collettività che sembrava rappresentare un fondamento da cui prima egli era partito per legittimare la guerra.

La contraddittorietà è una condizione che caratterizza la personalità dello scrittore. Il suo approccio nei confronti del mondo risente fortemente di un contrasto apparentemente insanabile tra il bisogno di ordine e di equilibrio e la presa di coscienza di un caos esterno a cui corrisponde una profonda sofferenza interiore.

La figura umana e letteraria di Gadda si inquadra in relazione a un rapporto di corrispondenze e al contempo di antitesi tra la dimensione individuale e quella sociale. La prima fase dell’attività letteraria di Gadda può essere intesa come un apprendistato attraverso il quale si definiscono gli elementi che rimarranno centrali lungo tutta la sua produzione letteraria successiva.

È il contrasto tra l’io dello scrittore e il mondo esterno a rappresentare la vera guerra a cui egli è costretto a prendere parte lungo tutta la sua vita. È questo l’insegnamento che l’esperienza della partecipazione alla Prima Guerra Mondiale sembra aver più significativamente lasciato al giovane Gadda e tale risulta il valore della sua singolare testimonianza anche agli occhi di noi uomini del ventunesimo secolo.

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