STEFANIA CELENZA: “La vita ha vinto lo stesso”

Indi Gregory è morta.
Ma i suoi otto mesi di vita sono stati importantissimi e molto preziosi.
Importanti per i suoi genitori che hanno avuto il dono della sua nascita e della sua esistenza, importanti per tutte le persone che si sono strette intorno alla sua vicenda, che si sono attivate, che si sono impegnate, che hanno lottato per la sua salvezza, importanti per l’Italia che ha messo la Vita al primo posto e che ha offerto alla bambina la cittadinanza, l’aiuto, le cure e l’amore.
Tutto questo non è accaduto invano.
La storia di Indi ci ha insegnato molte cose. Ci mette in guardia.
Così come è stato possibile spacciare la crudeltà di interrompere il supporto vitale, per il perseguimento del suo “migliore interesse”, così come è stato possibile sorvolare sulla dichiarata contrarietà dei genitori, esercenti la potestà sulla minore, così come è stato possibile agire in totale discrezionalità ed arbitrarietà, sulla base della retorica che avversa l’accanimento terapeutico e che intende eliminare la sofferenza, attraverso la morte, se è stato possibile tutto ciò, da parte di uno Stato che si dice civile, allora sarà possibile molto altro e molto di più.
Chi potrà impedire, per esempio, che anche un qualunque cittadino maggiorenne, che si trovi in condizioni di rianimazione ospedaliera, per qualsivoglia motivo, venga soppresso, in nome del suo “migliore interesse”, deciso da qualsiasi sedicente Alta Corte di “Giustizia”, pur in presenza di un diniego espresso dell’interessato?
Tutto questo apre la strada allo jus vitae ac necis dello Stato sul cittadino.
E’ accaduto alla piccola Indi, contro il parere dei suoi genitori, potrà accadere ad ognuno di noi, contro il nostro stesso parere.
E’ necessario allora interrogarsi sulle implicazioni etiche, educative e giuridiche della storia della piccola Indi.
Dobbiamo domandarci quale sia stato il senso del suo dolore, il senso della sua vita, il senso della sua morte.
Il giudice inglese che si è occupato di cercare questo senso, ha così risposto “è nell’interesse di Indi non prolungare la sua sofferenza”.
Secondo codesto giudice, i genitori della bambina non sono stati in grado di riconoscere questo “interesse”.
Dunque gli interrogativi si moltiplicano.
Se si sostiene che i legittimi titolari del diritto di decidere sulla vita non siano in grado di esercitarlo (perché non sono in grado di riconoscere i propri stessi interessi), CHI può, allora, farlo al posto loro? CHI può assumere questa decisione? CHI può dirsi in grado di riconoscere gli altrui interessi? CHI può arrogarsi il potere di sostituirsi al titolare del diritto?
CHI e PERCHE’?
La risposta alla prima domanda è puramente politica ed ideologica. Il CHI muterà a seconda della opportunistica distribuzione del potere, in un dato luogo geografico ed in un dato momento storico.
Se Indi fosse nata in Italia, in questo momento sarebbe ancora viva.
La risposta alla seconda domanda è quella di avere voluto dare un limite al dolore. Ma è una risposta profondamente ed eticamente sbagliata. La sofferenza, la fatica ed il dolore, in realtà, hanno un grande significato.
Il dolore, per quanto grande, non può mai prevalere sulla vita e sull’amore.
E’ giusto e bellissimo spendersi, in ogni modo possibile, per accompagnare, aiutare, sostenere chi soffre, con quell’amore e quella cura che ogni persona, nel suo grande mistero, merita. Questo è il punto.
Stare accanto a chi soffre e non eliminare chi soffre.
Eliminando la persona, non si elimina la sofferenza. La sofferenza è una parte della vita, va conosciuta, va affrontata, va superata.
La felicità, d’altronde, non è altro che la fine di una sofferenza. Per ambire alla felicità, dunque, occorre passare attraverso la sofferenza e superarla.
La gioia che si prova quando è passato un dolore è indicibile.
Si può obiettare che non sempre il dolore passa, che spesso rimane ad abbrutire la vita. Quello che fa la differenza, allora, è la speranza, la fiducia e la fede. Credere, crederci. Essere certi che il dolore passerà, essere certi che ce la faremo, essere stati certi che Indi avrebbe potuto essere salvata e guarire.
Una volta don Giussani disse: «Che coraggio ci vuole per sostenere la speranza degli uomini!».
Infatti, sostenere la speranza vuol dire condividere la sofferenza.
Ci vuole del coraggio per condividere la sofferenza degli uomini.
La resistenza e la forza ideologica del sistema sanitario e legale britannico sono state apparentemente irriducibili. Ma la piccola Indi è stata più forte.
Di fronte alla sua nascita in cielo, dobbiamo trovare il coraggio per continuare a credere, a lottare e a difendere la vita. La cultura della morte sembra potente, perché pervade le società, le leggi, le politiche, i sistemi giudiziari e sanitari delle nazioni.
Ma le forze che odiano la vita non prevarranno.
E’ il diritto alla Vita che vincerà.
Nel 2011 Benedetto XVI, a una bambina che gli chiese il perché del dolore di altri bambini come lei, così rispose: «Non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente… Questo mi sembra molto importante, anche se non abbiamo risposte, se rimane la tristezza:
Dio sta dalla vostra parte». 

Lastra a Signa, 16.11.2023

STEFANIA CELENZA

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