MARCELLO VENEZIANI: “Quell’indimenticabile giorno dell’Immacolata”

Me li ricordo, la mattina dell’Immacolata del Duemila, Giovanni e Mimì, uno accanto all’altra a celebrare la messa nella piccola cappella di Villa Giulia per le loro nozze di diamante. Sessant’anni insieme, e con crescente insofferenza reciproca. I litigi della vecchiaia. Era stato un matrimonio d’amore, ma non avevano mai festeggiato lungo gli anni il loro anniversario perché c’era un peccato originale di cui si vergognavano, mia madre soprattutto. Quando si sposarono aspettavano un bambino, anche se mia madre teneva a dire che era avvenuto per una specie di miracolo, “per assorbimento”, ossia senza deflorare l’imene. Per noi non faceva alcuna differenza, erano fidanzati da anni, si amavano con passione, ma per lei quella precisazione era una questione decisiva. Quel matrimonio in fondo previsto ma deciso da causa accidentale non era piaciuto all’austera madre di lui che aveva disertato la cerimonia furtiva, solo tra pochi intimi. E questo pesava ancora su di loro, su mia madre soprattutto, dopo decenni. Per questo non si riusciva mai a sapere quando si erano sposati, che festa era stata la loro, in che giorno si erano sposati e dove, chi c’era tra gli invitati, quando era il loro anniversario. Perché poi avremmo fatto presto i conti, considerando quando era nata mia sorella. Ma alla fine s’arresero, negli ultimi anni confessarono l’amabile misfatto e quando smisero di essere loro i promotori della famiglia, per diventarne i Vecchi, accettarono di festeggiare quel sessantennio, ma solo per ringraziare il Signore che li aveva conservati in vita attorniati dai loro figli. Me li ricordo in quella piccola cappella a due passi da casa, sessant’anni dopo davanti al prete; come mi sforzai in quei minuti di entrare nella loro testa e pensare i loro pensieri, rivedere con la loro retina le immagini di sessant’anni prima, vederli come si vedevano.

Il loro matrimonio era ormai un ménage fondato sul reciproco brontolìo, divergevano su tutto, si accusavano di tutto, esercitavano il loro amore detestandosi, rinviandosi a quel paese e augurandosi di premorire l’uno all’altro, tanto per far sapere quanto non si sopportavano. Il sottinteso spregiativo era che l’erba cattiva sopravvive sempre all’erba buona. Ma era pure un modo burbero per augurarsi lunga vita a vicenda, almeno così pensavamo che fosse. Talvolta mia madre cedeva a qualche sussulto di tenerezza, sull’onda di qualche ricordo, ma lo faceva solo attraverso la presa in giro; e allora mio padre sorrideva sornione con gli occhi a mezza palpebra e si lasciava sfuggire qualche ruvida dolcezza, simulando sempre il litigio e lamentando comunque il danno subito. Mia madre gli rinfacciava pure le infedeltà passate, anche solo immaginarie. La più spiritosa, perché ormai caduta in prescrizione per decorsi termini, e dunque non più perseguibile a norma di gelosia, riguardava la loro giovinezza, ai tempi dell’università. Erano fidanzati, studiavano a Napoli entrambi e lui un giorno disse che doveva tornare a Bisceglie in anticipo per una ragione poco convincente. Lei sospettò qualcosa e si mise a girare come una pattuglia della polizia per le strade del centro di Napoli dicendo tra sé come in una pratica magica: ah, come lo vorrei beccarlo… E lo beccò, lo sorprese con una ragazza a passeggio. Lui, come spesso accadeva quando era in difficoltà, si tolse gli occhiali, come se non vedendo lui non fosse visto da lei… Era un modo per deresponsabilizzarsi, come amava fare, per rendere tutto sfuocato, poco visibile. La strategia della seppia, che spruzza l’inchiostro nell’acqua per non farsi vedere ma lui la spruzzava a se stesso… Farfugliò scuse, poi tornò all’ovile. Mia madre lo raccontava con la faccia di Agatha Christie, orgogliosa di avere capacità paranormali nell’intercettare mio padre e presagire ogni suo movimento sospetto. Ma era telepatia d’amore, sembrava suggerire, non solo intuizione femminile e capacità investigativa… A distanza d’anni divergevano le versioni, ma prevalevano i sorrisi. Lui si sentiva di colpo giovane quando si raccontavano le sue imprese galanti di gioventù, sbucava una faccia da ragazzo dai suoi ottant’anni inoltrati e lei riscopriva la verve combattiva di gioventù, piccola e coriacea miliziana delle Nozze a oltranza. Non c’era più quell’amore giovanile tra loro, ma un legame più aspro e più forte. Superarono così il millennio, insieme, scambiandosi finalmente un bacio. L’ultimo precedente che io ricordi fu nella notte di Capodanno che segnava il passaggio al nuovo millennio. Mia madre riuscì a costringere mio padre a restare in piedi fino alla mezzanotte, impresa eroica e lui per la prima volta non si sottrasse. Quando scoccò l’ora, eravamo tutti insieme, ma per la prima volta mia madre antepose a noi figli suo marito e volle baciarlo prima di tutti. Fu un attimo intenso e furtivo. C’era voluto lo scoccare di un nuovo millennio per concedere un istante di libera uscita a quell’amore implicito. Le loro furono divergenze parallele. Litigavano all’infinito ma restando insieme, uno accanto all’altra, imprecando.

(Da Ritorno a sud, Mondadori, 2014)

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