Fecero il giro del mondo le immagini del 6 gennaio 2021, giorno in cui prendeva corpo la protesta popolare dei sostenitori trumpiani in virtù di una presunta manipolazione elettorale che portò alla Casa Bianca il democratico Joe Biden. Lo stesso accadde quando il redivivo Lula, dopo dodici anni di esilio politico e varie vicende giudiziarie, riprendeva in mano le redini del Brasile scatenando la rivolta (pacifica) dei sostenitori di Bolsonaro, estromesso dalla presidenza, a loro dire, attraverso brogli elettorali. In entrambi gli episodi, la condanna internazionale per i rivoltosi è stata quasi unanime. Come è (quasi) unanime il sostegno internazionale alle proteste che, da una settimana, stanno infiammando Belgrado, nelle quali la coalizione di opposizione sta denunciando presunte manipolazioni alle elezioni parlamentari e locali del 17 dicembre in Serbia, chiedendone l’annullamento per estromettere Aleksandar Vucic, uscito vincitore dalle urne.
Tre casi simili. Tre episodi dove l’esercizio democratico del voto elettorale viene messo in dubbio. In due di questi casi, negli Stati Uniti e in Brasile, le rivolte hanno una matrice conservatrice; in un caso, quello della Serbia, l’origine è progressista. Nell’era della dittatura del pensiero giusto, la solidarietà è discrezionale: la difesa del proprio territorio diventa un legittimo diritto quando si parla di Ucraina, forma di imperialismo bellico quando si parla di Israele. Non trattare con i terroristi diventa un valore non negoziabile nel caso della Russia, elemento trascurabile nel caso di Hamas. E anche le rivolte di piazza assumono le fattezze di lotta di liberazione legittima quando sono mosse da forze progressiste, disordini stigmatizzabili e da condannare in modo assoluto quando la loro matrice è conservatrice.
Eh sì, sempre due pesi e due misure.