Ma cosa spinge un influencer e una ditta a far credere che il prodotto da loro venduto giova all’umanità, fa beneficenza a malati, poveri e bisognosi? La molla principale è cinica: vendere di più con la scusa di compiere una buona azione, battere la concorrenza, soprattutto se i prodotti industriali sembrano tutti più o meno equivalenti, dando una motivazione in più d’acquisto che magari giustifica pure un prezzo più alto rispetto a quelli dei prodotti concorrenti. Anche per l’influencer la ragione cinica è la stessa; incassare di più, risolvendo la generosità esibita in una miserabile, pidocchiosa elemosina, che però porta al rialzo le vendite e il marchio, così da produrre profitti ben superiori alla piccola donazione.
Ma c’è una ragione di fondo che muove il regno degli influencer e la nuova società dei consumi: è lo spaccio di buoni sentimenti, la vendita del prodotto insieme alla buona coscienza, l’assoluzione dell’ingordigia e dello sgarro alla dieta con l’alibi della buona azione. E’ il moralismo della società dei consumi che si posa sui prodotti come lo zucchero filato sul pandoro: inneva il prodotto di candore, dolcezza e ipocrisia, complice l’atmosfera natalizia. Il discorso non riguarda solo la beneficenza, ma anche la buona coscienza ambientalista: quando un prodotto viene pubblicizzato vantando che non ha olio di palma, non inquina o la sua confezione è eco-sostenibile, biodegradabile, si invoglia il consumatore ad acquistare a prescindere dalla bontà del prodotto, fornendogli una dose di buona coscienza civica. Tu non compri per puro egoismo o per avidità consumistica ma acquistando questo prodotto giovi al prossimo o alla natura, salvi la terra, concorri a rendere migliore il mondo. Si arriva al paradosso che le qualità di un prodotto che lo rendono appetibile e preferibile vengono cancellate per evidenziare le ragioni morali di quella scelta. Non più pubblicità comparativa sulla bontà, la quantità, la convenienza, il rapporto qualità/prezzo: ma si spaccia una superiorità morale nel comprare quel prodotto adducendo motivazioni etiche, ambientali e umanitarie. La stessa logica conduce molte ditte e agenzie pubblicitarie a condensare in mezzo minuto di spot un sintetico breviario dei buoni sentimenti umanitari: inclusione, bambini neri, disabili, coppie omosex, femminismo e animalismo, ecologia. Tutto frullato in pochi secondi per dare a quel prodotto un titolo di superiorità morale, l’impegno etico “per un mondo migliore”. Tu fai la spesa in quel supermercato, compri quello shampoo o quella merendina e sei un benefattore dell’umanità, dell’ambente, del pianeta. Stucchevole, ipocrita questo moralismo. Indecente, poi, se è pure falso, cioè non corrisponde al vero ma è solo una vernice ipocrita per piazzare una merce.
Ma c’è anche il moralismo dell’influencer, la sua pretesa di arricchirsi godendo però dell’ammirazione della gente, aspirando cioè a vivere ben al di sopra dell’umanità ma col plauso e l’affetto dell’umanità, come se fosse un santo e un eroe, oltre che un top model. Un tempo il ricco non mostrava i suoi proventi e la sua vita lussuosa per non suscitare invidia e odio di classe. Con la pubblicità solidale e i messaggi inclusivi, col falso moralismo e il più falso pietismo da anime belle, l’influencer non solo vuole cancellare l’invidia ma vuole destare perfino gratitudine, vuole apparire un benefattore dell’umanità.
Sarebbe molto più affidabile una società in cui le motivazioni che spingono a vendere i prodotti fossero portate alla luce del sole e non nascoste; e in cui la conquista del mercato fosse legata alle qualità del prodotto, all’offerta o alla convenienza dei suoi prezzi. Poi se qualcuno vuol fare beneficenza lo faccia pure, ma a parte; e se proprio vuole ostentare, allora specifichi in che misura e come fa la carità. Così ciascuno si regola e dà il giusto peso. Se per esempio per un pandoro o per un uovo di pasqua si dicesse che verrà devoluto in beneficenza appena il tre per cento di quel che percepisce solo il testimonial, sarei curioso di vedere quanta gente resterebbe intenerita e da una confessione del genere.
In un post scritto nei giorni in cui è esploso il caso Balocco avevo sostenuto che Chiara Ferragni non è un’eroina ma solo una venditrice, una piazzista che fa il suo mestiere ma ha usato l’inganno buonista per vendere meglio, incassare di più e farsi una buona fama. Molti hanno commentato che così fanno pure i politici. Come a dire: sono loro il primo esempio e i primi colpevoli, di che scandalizzarsi? Per una volta lasciatemi difendere i politici che pure hanno difetti e vizi anche peggiori. Il politico usa pubblicità ingannevole per farsi votare, usa promesse che non manterrà, racconta storie non vere e pubblicizza cose che non ha realizzato o non realizzerà. Ma la sua motivazione, almeno quella principale e diretta, è vincere la competizione politica e governare. Fa proposte indecenti, ma potrebbe pur sempre nascondersi dietro l’alibi che il fine giustifica i mezzi: per governare un paese, per realizzare un programma. Potrebbe arrivare a dire che nell’interesse pubblico usa questi raggiri e false promesse. Nel caso della pubblicità commerciale, invece, non c’è alcun fine superiore o alcun interesse pubblico, c’è solo il guadagno, il maggior fatturato, l’interesse privato. E’ la logica delle aziende, del mercato, del capitale.
Dal vaso di Pandora rovesciato da Chiara Ferragni sono uscite le uova marce del moralismo consumista e gli idoli falsi e bugiardi chiamati influencer.
(Panorama, n.1)