ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – Nel Tempio di Iside – (capitolo 26) – vedi galleria fotografica

Sbarcati sull’isola di Philae, l’occhio viene calamitato innanzitutto dalla costruzione più imponente, solo dopo si notano dislocati qua e là altri edifici di minori dimensioni che furono eretti posteriormente nel giro di tre secoli. La fama di Philae giunse al punto che nel II secolo a.C. l’affluenza dei pellegrini nell’isola era aumentata così tanto, che i sacerdoti dovettero chiedere l’intervento di Tolomeo VIII per limitarla: questo lo sappiamo dalla scritta scolpita alla base del celebre obelisco trasportato da Belzoni.

Per arrivare al nucleo principale, il tempio di Iside, si passa a fianco del chiosco di Nectanebo I che sorge a sinistra di chi sbarca. Fu quel faraone, capostipite della XXX dinastia, vissuto nel IV sec. a.C., a iniziare la costruzione del santuario. Lo schema del chiosco era simile a quello di un’edicola posta sulla terrazza del tempio di Dendera, dedicato alla dea Hathor.

L’edificio non risultava integro, ma le restanti colonne campaniforme, dai capitelli modellati con le sembianze di Hathor, bastavano a farne capire l’eleganza. Ricco di geroglifici, è risultato molto importante per fornire notizie relative al periodo della XXX dinastia.

Poco oltre si apriva il dromos, una sorta di cortile trapezoidale che dava accesso al tempio principale. Era un ambiente molto suggestivo, racchiuso ai lati da eleganti colonnati che si protendevano scenograficamente verso la facciata del pilone d’ingresso. Mentre quello di destra era incompiuto, particolarmente raffinato appariva il colonnato di Augusto alla sinistra, che si affacciava proprio sul Nilo. Fu costruito dall’imperatore che qui compariva nelle scene di offerte e nei cartigli scolpiti sui muri, insieme ai discendenti della dinastia Giulio-Claudia, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. Vi restavano ancora tracce del soffitto stellato e i fusti istoriati delle 32 colonne, sormontati da capitelli scolpiti in varie elaborate forme, lo rendevano particolarmente gradevole.

La sosta davanti al primo pilone, che sempre incute una sorta di soggezione nel visitatore, ha sortito il consueto effetto di far sentire l’osservatore un essere minuscolo rispetto alla grandezza del potere e della divinità che si fondono sempre nei monumenti egizi. Stavolta si trattava di Tolomeo XII Neo Dioniso, raffigurato come gli altri re nel gesto convenzionale di afferrare nel pugno un mucchio di guerrieri nemici. Lo faceva al cospetto della dea dedicataria del tempio, del figlio Horus e della dea Hathor.

L’ingresso era preceduto da due leoni dai volti sfigurati, esempio tangibile dell’insofferenza verso le opere della tradizione pagana mostrata dai primi cristiani iconoclasti, indotti dalla nuova religione allo scempio delle rappresentazioni artistiche considerate blasfeme od oscene.

Il culto di Iside era sopravvissuto, anzi addirittura accresciuto, al tempo dei Romani, sotto i quali Philae si era ingrandita diventando una vera e propria città dalla pianta a scacchiera. I nuovi conquistatori avevano apportato ulteriori abbellimenti e migliorie al sito, mostrando una tale cura e affezione per il culto della dea che l’afflusso dei pellegrini era continuato perfino quando aveva cominciato a diffondersi il cristianesimo. La convivenza con la nuova religione tuttavia non fu facile perché i copti si fecero via via più insofferenti per la permanenza dei riti pagani, finché nel 550 d. C. l’imperatore Giustiniano ordinò la chiusura del tempio e l’illegittimità del culto di Iside. Le opere d’arte del santuario furono allora trasportate a Bisanzio e i pellegrinaggi cessarono.

I RILIEVI DEL TEMPIO

L’affermazione definitiva del cristianesimo dette il via all’occupazione dei luoghi sacri ai pagani, che furono trasformati in chiese. Anche Philae subì questa sorte. Varcando la soglia del tempio, si notano bene i rilievi scolpiti in modo da segnare l’avvento della nuova era: il simbolo della croce visibile sulle colonne, come pure la presenza di un altare con dietro un tabernacolo scavato nel muro perimetrale, sono segni evidenti dell’insediamento nel tempio del nuovo culto.

I primi cristiani iconoclasti, allo scopo di far piazza pulita delle antiche credenze religiose e trasformare per quanto possibile l’edificio in chiesa, si avventarono con foga distruttiva sulle immagini di animali che, in quanto idoli, offendevano il loro credo, ma soprattutto sulla stessa Iside. Non contenti di aver preso le figure a martellate, pensarono di ricoprire i rilievi di fango per dipingervi sopra soggetti del cristianesimo. Ma ovviamente questi si deperirono col tempo lasciando intravedere sotto le incrostazioni le effigi pagane e i geroglifici, come testimoniò Belzoni nel suo resoconto del 1817: “Sui muri coperti di fango per nascondere i geroglifici sono state dipinte alcune figure caratteristiche della religione cristiana, ma con il tempo i geroglifici sono riemersi e lo strato di fango qua e là è caduto”.

Yasser si è soffermato proprio sulla nuova rappresentazione della dea dovuta agli artisti dell’epoca tolemaica. Non più resa in modo consueto, ossia senza evidenziare particolari anatomici, in modo da mostrarne esclusivamente la divinità, ma scolpita per la prima volta con particolari che ne rendevano la bellezza prorompente. In tal modo, ha spiegato, gli osservatori non erano colpiti tanto dalla sacralità della dea, quanto dalle sue forme procaci. Soprattutto l’ombelico, mai prima evidenziato dagli scultori, colpiva i fedeli: “Che bella!” commentavano davanti allo spettacolo della sua femminilità.

I sessuofobi cristiani, colpiti da questo aspetto, rimediarono a modo loro. Una volta insediatisi nel tempio, decisero di eliminare quelle “sconcezze” a colpi di scalpello. Naturalmente infierirono sui rilievi situati più in basso perché più facilmente raggiungibili, del resto in alto lo sguardo non poteva mettere bene a fuoco i particolari da loro giudicati osceni. Fu così che capolavori come questi raffigurati a Philae, furono deturpati e rovinati per sempre. Nella sala ipostila erano ben visibili le tracce della furia iconoclasta che apparivano anche negli altri ambienti. I rilievi che rappresentavano il mito di Osiride risultavano deturpati, i volti dei personaggi sfigurati. Le figure in alto rimaste intatte stupivano per grazia ed eleganza, causando un forte rammarico per lo scempio apportato altrove dai fanatici puritani.

La cella del santuario era occupata dal piedistallo che sorreggeva la Barca sacra di Iside usata per le processioni. Intorno al sacrario si aprivano varie stanze decorate con raffigurazioni funerarie, destinate al culto di Osiride. Nella parte sinistra del cortile interno fra il primo e il secondo pilone si affacciava il colonnato del mammisi, il luogo che celebrava la nascita di Horus. Un monumento nel monumento.

All’interno del tempio siamo stati accolti dai gatti. L’animale, considerato sacro dagli Egizi, aveva addirittura un suo tempio specifico e una dea protettrice, Pakhit, per cui aveva libero accesso nei luoghi sacri.

Qui ne abbiamo trovato diversi: quelli che non si aggiravano con l’aria di padroni di casa, stavano sdraiati placidamente all’ombra protettiva del colonnato o si riunivano intorno ad avanzi di cibo fornito dai custodi.

Uscita dal tempio di Iside, ho scorribandato fra gli altri edifici alla ricerca di angoli suggestivi. Ce n’erano a bizzeffe: l’isola appariva uno scrigno di gioielli, fra cui spiccava il chiosco di Traiano, un’edicola particolarmente leggiadra affacciata sul fiume, di stupefacente leggerezza, costruita per ospitare la barca di Iside.

Tornando verso l’imbarcadero mi sono soffermata nel portico di Augusto, un lungo corridoio delimitato verso il fiume da un muro su cui si aprivano ampie finestre, tante cornici di quadri fascinosi che illustravano il paesaggio intorno all’isola: affacciandosi da lì, si scorgevano le alture spoglie della sponda opposta, dove brillavano candidi caseggiati e in mezzo, solcato dalle vele bianche delle feluche, il Nilo, cosparso di isolotti modellati con diverse stravaganti forme che solo l’estro della natura può immaginare.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – capitolo 26 (continua)

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