Nel saggio La società trasparente, pubblicato nel 1989, Gianni Vattimo suggerisce l’idea che oggi non si possa più «parlare di storia come qualcosa di unitario» e teorizza la fine della modernità.
Lo studioso torinese sviluppa il suo ragionamento a partire da una tesi esposta per la prima volta da Walter Benjamin nel 1938 in un breve scritto intitolato Tesi sulla filosofia della storia: la rappresentazione del passato così come a noi è stata tramandata, si configura come un insieme appositamente assemblato di eventi, tale da riflettere l’ideologia dei gruppi e delle classi sociali dominanti.
La Storia non sarebbe tramandabile nella sua totalità perché l’approccio allo studio dei fatti antichi risente sempre del tramite di chi, da quel passato, ha selezionato i fatti secondo lui più “rilevanti” da far conoscere.
Le vicende di cui si compone la Storia sono il risultato di una ricostruzione che rispecchia una visione del mondo proposta dalla “gente che conta”, in modo che faccia comodo ad alcune élite culturali e di potere. I sovrani e i potenti hanno setacciato il passato e ne hanno individuato e narrato gli eventi da loro ritenuti degni di essere conosciuti, mentre «i poveri, o anche gli aspetti della vita che vengono considerati bassi, non fanno storia».
A partire da queste considerazioni, Vattimo mette in rilievo come, nei tempi attuali, si stia attraversando una crisi culturale che ha tolto credito alla Storia in quanto rappresentazione unitaria e universalmente valida del nostro passato.
Il proposito che Vattimo si sente di formulare è perciò quello di modificare l’approccio allo studio della Storia affinché i ricercatori illustrino sempre un insieme variegato di punti di vista da cui, volta per volta, è opportuno guardare per ricostruire gli eventi. La finalità che si intende perseguire è quella di far percepire la molteplicità come carattere intrinseco alla Storia e all’umanità stessa.
L’impossibilità di individuare una linea unitaria lungo la quale ordinare lo sviluppo delle vicende umane scardina anche qualsiasi organizzazione del pensiero storico che determini un fine ultimo a cui puntare. «Le immagini del passato [sono da proporre] da punti di vista diversi ed è illusorio pensare che ci sia un punto di vista supremo, comprensivo, capace di unificare tutti gli altri».
Si tratta di un atto decostruttivo devastante operato da Vattimo nei riguardi di ogni tipo di approccio razionale al corso delle vicende umane. Quella che se ne ricava è la dichiarazione che non esiste alcun piano di miglioramento educativo e di emancipazione dell’uomo.
L’illuminismo, l’idealismo ottocentesco e tutti gli storicismi, ivi compreso il positivismo, sono da rifiutare, perché l’impianto di pensiero sul quale questi sistemi ideologici si costruiscono viene scardinato dalla scoperta che la storia non esiste come realizzazione di civiltà e progresso.
L’annullamento di ogni punto di convergenza in un’ottica onnicomprensiva e la visione frammentata e improntata sulla diversità che se ne ricava, determinano anche un decentramento spaziale rispetto al tradizionale eurocentrismo.
L’ottica unitaria attraverso la quale si è sempre letto il mondo, privilegiando specifiche coordinate geografiche e spaziali, ha configurato la Storia in maniera elitaria. Si sono giustificate le prospettive di conquista mosse dall’Europa, in virtù del modello di umanità ideale di cui essa sarebbe stata incarnazione e custode.
L’elemento fattuale assunto come criterio storico in grado di giustificare l’allargamento di quell’ideale centralizzato di umanità avvenuto attraverso il colonialismo è la venuta di Cristo o il Sacro Romano Impero. Nella modernità è stato l’uomo europeo a trainare il corso della Storia ed europeo è l’ideale di uomo moderno che nella Storia si è voluto imporre.
I popoli colonizzati, però, si sono ribellati ed hanno smentito questa prospettiva centralizzata e unitaria. A partire da adesso quello europeo lo si deve assume come uno tra i tanti ideali validi nel panorama universale dell’umanità e non più come l’unico da accogliere.
Il superamento della modernità è coinciso con l’avvento della società della comunicazione di massa. Secondo Vattimo i mass media, benché monopolizzati dal grande capitale, permettono a tutti di esprimersi, comprese le minoranze, e forniscono a chi tradizionalmente è stato zittito da ideologie totalizzanti di far valere il proprio punto di vista.
La società “postmoderna” ruota attorno alle nuove forme di comunicazione che hanno assunto un rilievo determinante nello spostamento degli equilibri sociali e nel dare nuova configurazione ai rapporti umani e di potere.
Vattimo si mostra consapevole del fatto che la nuova società che si sta costruendo attorno ai nuovi mezzi di comunicazione e che è aperta alle nuove prospettive offerte dai mass media, non è una società più ordinata o più semplice rispetto al passato.
L’epoca postmoderna dimostra, al contrario, una maggiore complessità, al punto tale che la nuova «società [si presenta persino] caotica». Non esiste una maggiore consapevolezza di sé da parte degli individui appartenenti alla nuova società di massa. Piuttosto si rileva un’indeterminatezza diffusa che però uniforma i singoli nell’equità anarchica del disordine e della pluralità. Tuttavia Vattimo ritiene che proprio in tale caos «[risiedano] le nostre speranze di emancipazione».
Stando a quanto teorizzato da Jean-François Lyotard (in La condizione postmoderna pubblicata nel 1979), proprio i mezzi di comunicazione di massa, cioè i giornali, la radio, la televisione, hanno contribuito fortemente a smembrare i cosiddetti “grandi racconti” della storia, cioè le teorie sulla realtà e le sue logiche costruttive di validità oggettiva che hanno imposto una prospettiva di pensiero universale verso la quale convergere.
Theodor Adorno aveva profetizzato, invece, che proprio l’affermazione dello strumento di comunicazione della radio avrebbe prodotto «una generale omologazione della società» (cfr. Dialettica dell’Illuminismo, pubblicata nel 1947 e Minima moralia nel 1951). Tale appiattimento avrebbe paradossalmente favorito, per converso, la nascita di dittature e di governi totalitari.
Si tratta di una prospettiva che ha dato origine alla potente azione creativa della fantasia di George Orwell il quale, in 1984, romanzo pubblicato nel 1948, incarna nel personaggio del “Grande Fratello” il potere di controllo da parte del governo, esercitato in maniera capillare sui cittadini.
Tale controllo si intende perpetrato anche attraverso la pubblicità e la propaganda, strumenti privilegiati del potere che, attraverso di essi, impone visioni del mondo uniformanti e stereotipate.
Vattimo però insiste perseguendo una prospettiva di rimodernamento del mondo ottimistica e intenti di ricostruzione positivi associati a questa nuova visione. Egli sottolinea come, a suo modo di vedere, il rischio di sprofondare sotto regimi governativi totalitari lasci più opportunamente il posto alla possibilità di usufruire di occasioni sempre più ampie in cui realizzare nuove potenzialità espressive da parte di diversi e sempre più vari attori della comunicazione.
La moltiplicazione delle visioni del mondo, le “Weltanschauungen”, è vista dal filosofo torinese come il segno della ribalta delle subculture sull’imperialismo europeo. La frammentazione del mondo darebbe adito a realtà prima del tutto ignorate di mettersi nell’irrinunciabile prospettiva di farsi conoscere. Tale apertura di prospettive conoscitive sarebbe talmente ampia e capillare al punto da mettere addirittura in crisi il concetto stesso di realtà.
L’epoca postmoderna è in grado di dare luogo ad un’emancipazione umana nella misura in cui la società mediatica renda possibile l’affermazione di un mondo plurimo in cui non c’è una realtà unica. Vattimo prospetta una libertà che è proprio nell’inconsistenza evanescente di un mondo fatto di immagini.
Le merci illustrate nelle pubblicità, foto non reali e proiezioni fantasmagoriche sugli schermi, danno la misura di una leggerezza costitutiva che nasce dallo smarrimento della solidità della dimensione fisica e tangibile delle cose. È come un mondo di fantasia indistinguibile dall’autorevole e minacciosa ma rassicurante concretezza di una realtà dai contorni ben determinati.
Per Gianni Vattimo le potenzialità di una siffatta svolta verso un’epoca di indeterminatezza e di spaesamento esistenziale, nonché di esplosioni incontrollabili di realtà in divenire, sono superiori rispetto ai rischi concreti della banalizzazione e dell’annichilimento culturale e gnoseologico che a questo fenomeno sicuramente si accompagnano.
Cadendo l’idea di una razionalità centrale e unitaria, anche lo stesso mondo della comunicazione darebbe luogo, forse, a un’insormontabile incomunicabilità. Sarebbe come riempire la realtà comunicativa di differenze linguistiche impossibili da riportare a unità. Un’esplosione di dialetti con difformità infinite e nessuna lingua di base.
Uno sfaldamento a livello ontologico dell’esistenza come quello prospettato da Vattimo è davvero garanzia di libertà o significherebbe un indubbio spaesamento e uno smarrimento di coscienza di sé masochistico e avvilente?