DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Relativismo: dire addio alla verità?”

Il XXI secolo si apre in maniera catastrofica. Attentati terroristici, guerre sanguinosissime, crisi internazionali insanabili, destabilizzazione finanziaria del sistema bancario a livello mondiale costituiscono il quadro disarmante con cui si presenta la nuova realtà.

Altro che progresso o prospettive di avanzamento democratico: il nuovo millennio inizia dimostrando il totale svilimento delle aspettative ottimistiche che la corrente di pensiero postmodernista aveva nutrito alla fine del secolo scorso, in vista di una più giusta articolazione dei rapporti tra i vari piani della società.

Gianni Vattimo, teorico del relativismo e principale fautore di una linea di sviluppo progressista del pensiero critico, riconosce gli innegabili fallimenti delle speranze riposte sull’emancipazione civile delle minoranze sociali e culturali.

Nel verificare quanto, invece, sia opportuno guardare in faccia alla realtà e prendere atto di alcuni incontrovertibili dati oggettivi, il filosofo torinese continua tuttavia a seguire con determinazione i propri ideali.

Vattimo ribadisce che quella contemporanea è una realtà in cui si afferma il definitivo annichilimento di ogni verità. Egli instaura uno scontro di vedute con chi, invece, ritiene che sia assolutamente da recuperare la certezza dell’esistenza di una “verità di base” oggettiva, concreta e condivisibile.

Nel maggio del 2011 Vattimo pubblica un proprio contributo intitolato Addio alla verità, ma quale? su MicroMega, importante rivista culturale italiana che ospita un confronto tra intellettuali in merito alla quantomai urgente necessità di chiarirsi sul tema della ricerca della verità.

Lo scritto di Vattimo rivela un allargamento delle stesse linee di tendenza già da lui seguite in una prospettiva pericolosamente screditante nei confronti di tutta la conoscenza. Il filosofo afferma la convinzione che un’unica verità non sia mai esistita, anche tenendo in considerazione il passato e tutti gli eventi umani della Storia.

Egli incentra la questione sul riconoscimento dell’impossibilità di accertare finanche la veridicità o la falsità dei criteri di valutazione delle idee o dei fatti condivisi all’interno della comunità scientifica.

Ogni conoscenza, secondo Vattimo, è il risultato di un accordo convenzionale tra tutti coloro che la riconoscono e la accettano. Il filosofo afferma: «Quando dico di congedarci dalla verità, voglio dire che dobbiamo dire addio a una verità che sia verificabile una volta per tutte in modo indipendente dai paradigmi adottati».

La corrente di pensiero novecentesca che conduce a un’estremizzazione del relativismo gnoseologico postmoderno, fino a istituzionalizzarne l’impianto di ricerca, si definisce “Ermeneutica”. Fermo restando che l’approccio ermeneutico implica una condivisibile e necessaria apertura al potere interpretativo individuale nei confronti dei testi letterari e, in senso più generale, dei fatti dell’esistenza, la prospettiva che se ne ricava rischia di essere spiazzante.

Identificando l’atto comunicativo, cioè il linguaggio, con la conoscenza stessa, il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein parlava di “giochi linguistici” intendendo che non esiste una lingua i cui termini e le cui strutture grammaticali permettano di veicolare un contenuto dal valore incontrovertibile, che non rischi di sfaldarsi in ricezioni comunicative particolaristiche.

In Ricerche filosofiche, pubblicato postumo nel 1953, Wittgenstein diceva che «[…] i criteri […] non sono verificabili o falsificabili, perché non esiste alcun metalinguaggio universale che ci permetta di collocarci su un piano superiore ad essi». Il linguaggio sarebbe, cioè, “un sistema di significazione dinamico”, in cui il senso di qualcosa non è mai dato in modo assoluto, ma sempre in modo relativo.

Vattimo nega la pretesa di rivelare verità indipendentemente dalle convenzioni che le precedono. «[Affermare conoscenze senza far capo ai criteri] – dice il filosofo – è esattamente ciò che fa l’autorità: parlare in nome della verità».

Risulta sacrosanto il bisogno, che afferma il filosofo torinese, di restringere il campo della ricerca della verità all’ottica particolare all’interno della quale si afferma un panorama di valori condivisi dagli appartenenti alla singola comunità.

Le prospettive superficialmente universalistiche rivelano, d’altro canto, il loro carattere fallimentare ancor più se la verità viene imposta e non si ricava come atto conclusivo di un percorso dialettico di deduzioni, di verifiche e di confronti.

L’atto di identificazione collettiva nel rispetto di una medesima ottica in cui si converge, è il segno dell’appartenenza a una determinata identità di valori e di certezze.

Il bisogno delle élite di dominare e di sottomettere, è vero, spinge nella direzione di un universalismo scientifico, gnoseologico e valoriale che viene recepito aprioristicamente, quasi come atto di fede e senza dimostrazioni. Al fine di rivelare conoscenze valide universalmente, la razionalità non deve affatto tradursi in un fideismo scientista.

Ma l’approccio ermeneutico non può rappresentare una valida alternativa se si traduce in un relativismo gnoseologico che, anziché aprire a un confronto dialogico razionale, si rivela, una volta smascherato, l’altra faccia della medaglia del totalitarismo cognitivo da cui fingeva di allontanarsi.

La via da percorrere per rifondare l’onestà intellettuale e l’uguaglianza tra gli uomini non è quella dello scardinamento del Passato e dell’Oggettività. Il relativismo gnoseologico non può essere un’alternativa al pensiero unico scientista, totalitarista e impositivo.

Quella da seguire è una strada formativa che ricostruisca la conoscenza ribadendo l’oggettività di alcune nozioni fondamentali e che, allo stesso tempo, affermi la libertà critica di interpretazione da parte dei singoli, capaci di ragionare nel rispetto di criteri razionali validi e condivisi.

2 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Relativismo: dire addio alla verità?”

  1. L’esperienza della Storia attesta che la verità, pur sostanziandosi della realtà oggettiva, assoluta e universale, si veste dell’umanità di chi traduce la verità teorica in fatto concreto, calandosi nella specificità di un vissuto che è soggettivo, relativo e contingente. Il passaggio dalla teoria alla pratica si spiega con la necessaria contestualizzazione spazio-temporale, che trasforma la verità astratta in fatto concreto.
    Gianni Vattimo, morto il 19 settembre 2023, filosofo del “pensiero debole”, oltre ad averlo teorizzato elogiando il nichilismo, è stato nella sua vita tutto e il contrario di tutto. Si è definito “comunista cristiano”, “comunista ermeneutico”, è stato parlamentare europeo nelle liste dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, ha fatto parte del Partito Democratico e della massoneria del Grande Oriente d’Italia. Prima del suo decesso, affetto dal morbo di Parkinson, fu dichiarato incapace di intendere e di volere, su iniziativa della sua famiglia, per salvaguardare la sua eredità dalle mire del suo ultimo compagno omosessuale. La debolezza in Vattimo è stata presente nel pensiero e nella vita.

    1. Esatto. Relativismo e debolezza nella teoria e nella pratica esistenziale. È stato incapace di intendere e di volere ben prima che gli venisse il morbo di Parkinson. Ci sarà un altro articolo dedicato a tutta questa problematica che verrà pubblicato sabato. Invito tutti, davvero, a leggerlo e a leggere anche quelli già presenti nella mia rubrica perché vogliono fornire una consapevolezza approfondita sulle premesse e sugli sviluppi ideologici e pratici del pensiero oggi dominante.

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