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La mattina dell’8 marzo ci siamo risvegliati a Luxor. Eravamo tornati nella città sede dei templi più celebri d’Egitto, punto di partenza e di ritorno della nostra crociera. Ma siccome la visita dei siti archeologici era prevista nel pomeriggio, per cui avevamo libera l’intera mattinata, ci siamo accordati con i vicini di tavola per una scorribanda nella città araba.
A bordo di un pulmino fornito dall’agenzia abbiamo raggiunto la vasta piazza antistante il museo all’aperto. In lontananza, dalla parte del Nilo si profilavano le sagome poderose dei monumenti, mentre dall’altro lato un arco trionfale dava accesso alla strada del suk, il cuore commerciale della città, dove avevamo l’intenzione di trascorrere qualche ora perdendoci fra le attrattive dell’Oriente.
L’arco moresco immetteva in una via larga e diritta riservata al transito pedonale. Fiancheggiata esclusivamente da botteghe, da una prima occhiata si intuiva destinata ad uso e consumo dei turisti. Era protetta perfino da una tettoia forata che lasciava trapelare discretamente i raggi del sole, rendendo confortevole la passeggiata ai clienti.
Data l’ora mattiniera, diverse saracinesche erano ancora calate, ma alcuni negozi avevano già aperto i battenti, esibendo merci così abbondanti da straripare sulla via, mentre i commercianti sostavano perlopiù seduti sulla soglia, pronti come falchi ad accogliere i clienti.
Tutto era lindo e a posto, frutto senz’altro di un’operazione volta a mostrare agli stranieri una città ordinata ed efficiente, però l’esatto contrario dell’idea che uno ha in genere di un bazar da mille e una notte, il che mi ha causato una sorta di delusione.
Zigzagando tra un negozio e l’altro, fra le merci più disparate, dai vestiti ricamati con motivi tipici alle magliette con stampati simboli occidentali, dai recipienti zeppi di spezie dai colori sgargianti alle lampade ornamentali, dai tappeti ai gioielli in pietre dure e filigrana, dalle statuette delle più strane divinità egizie, imitazioni di reperti archeologici, ai vasi di alabastro. E ancora scarabei, gatti, collane di turchese, zucchetti colorati a tinte vivacissime, borse di cuoio, trolley da aereo, maschere intagliate.
In un piccolo slargo spiccava l’insegna di un bar intitolato alla celebre cantante egiziana Umm Kulthum. La scritta mi ha colpito perché leggendo i romanzi dello scrittore Nagib Mahfuz, in particolare nella Trilogia del Cairo, ero venuta a conoscenza di questa artista che ha lasciato un segno indelebile nella musica non solo in Egitto ma in tutto il mondo arabo. Nell’opera di Mahfuz è descritta come una diva, un mito, davanti a cui, a partire dagli anni Venti, si inchinavano tutti, affascinati dalle sue abilità canore, nonché dalla sua capacità di suscitare, entrando come in trance, emozioni così intense da mandare in estasi le folle.
Da povera contadina del delta si era trasformata in una sorta di icona, ricevendo onori perfino dall’establishment politico sia nel periodo monarchico, beniamina dei re Fouad e Faruq, sia dopo la rivoluzione.
Nasser la portò in palma di mano, sollevandola al ruolo di Voce degli Arabi, per promuovere il regime dei colonnelli e l’ideologia del panarabismo. Quando la cantante morì nel 1975 le fu reso omaggio con funerali di stato e la cerimonia attirò una folla oceanica. Il feretro fu tolto dalle braccia dei portatori autorizzati per passare di mano in mano fra la gente.
Ma dopo questa divagazione torniamo nel suq. Nella via centrale si immettevano stradine laterali che ospitavano altre botteghe e bar. Di turisti a quell’ora ce n’erano ben pochi, mentre si notavano soprattutto le signore locali abbigliate quasi tutte di nero, ma non tutte a volto coperto. Una giovane commessa di un negozio ha accettato volentieri di essere fotografata, invece quando Rolando lo ha chiesto a gruppo di donne, un paio delle quali completamente velate, queste si sono rifiutate. Reazioni diverse che mostrano le due anime del mondo femminile del posto.
I venditori invitavano a comprare, ma non erano particolarmente insistenti, per cui abbiamo continuato ad entrare e uscire dalle botteghe abbastanza indisturbati, tutti presi ad ammirare la varietà delle merci, aspirarne gli odori, tastare le stoffe, provare copricapi.
A un certo punto la zona del suq elegante è terminata sfociando in una via trasversale percorsa da veicoli. Dalla parte opposta si apriva un quartiere molto diverso da quello in cui avevo cercato invano l’atmosfera moresca.
Il rione che avevo di fronte, si capiva subito, era finalmente autentico, era quello per cui sarebbe valsa veramente la passeggiata. Appariva finalmente il volto più tradizionale e spontaneo di una città araba, dove il turismo non è ancora riuscito a scalfire lo spirito originale degli abitanti.
Innanzitutto la differenza con la pulizia e l’ordine del suq precedente era palese. Qui la via principale era sterrata e quindi polverosa. Le botteghe di generi alimentari avrebbero fatto drizzare i capelli agli igienisti. La gente del posto circolava intenta alle compere: le signore facevano la spesa, girando con le sporte, si soffermavano ad ammirare i modelli esposti nei negozi di abbigliamento, chiacchierando e commentando fra loro. Bighelloni circolavano beati alla ricerca di curiosità.
I commercianti in attesa dei clienti sedevano comodi sulle soglie delle botteghe contemplando con aria filosofica il via vai della folla, o conversando animatamente con passanti, amici e vicini. Mi è venuta in mente una riflessione, banale quanto profonda, che mi aveva colpito in un libro di Kapuscinski, scrittore polacco e grande maestro di reportage, che diceva pressappoco così: la maggior parte della gente nel mondo passa il suo tempo seduto sulla soglia di una bottega guardando i passanti, così, senza far niente.