In occasione di un incontro con Giacomo Carioti avvenuto nel 1970, Pier Paolo Pasolini si intrattiene a dialogare col suo interlocutore presso il giardino della propria abitazione (cfr. Pier Paolo Pasolini Fui antimoderno, sognai Platone. Note di un antico incontro con Pasolini. Intervista di Giacomo Carioti sulla Rivista Machina, Spettacolo e comunicazione, anno primo-numero primo-aprile 1977, pp.14-17).
Lo scrittore e regista cinematografico emiliano attribuisce la propria singolarità intellettuale a dei fattori che egli ritiene ontologicamente incompatibili con i raggruppamenti entro cui l’opinione pubblica tende a classificare tutti.
Appurato il bisogno costante della società di ascrivere gli individui all’interno di categorie attraverso cui etichettare e codificare le varie personalità, Pasolini riconosce che alcuni aspetti del proprio carattere e le proprie inclinazioni umane lo rendono sfuggente e in contrasto rispetto all’omologante piattezza del mondo: una sorta di estraneo.
Lungo lo sviluppo della conversazione Pasolini identifica l’estraneità come una condizione esistenziale percepita in maniera sempre più diffusa e sempre più intuitivamente consapevole da parte di molte altre persone, specialmente se povere o in condizioni economiche particolarmente difficili.
Se da una parte il privilegio culturale fornisce al singolo gli strumenti intellettuali per acquisire una consapevolezza piena della propria irriducibilità alla massa, dall’altra la povertà materiale è una condizione di allontanamento dalla società che obbliga ad avere una coscienza intuitiva o “grossolana” di trovarsi al di fuori del sistema.
D’altronde, non a caso, Pasolini a Roma continua ad avere poche amicizie tra i cosiddetti uomini di cultura. «A parte Moravia, la Morante, Bertolucci e due o tre altri», dice Pasolini, «[…] il “mondo” che io continuo a frequentare è quello dei poveri, quello delle borgate romane».
Lo scrittore rivela con illuminante chiarezza di aver capito come funziona il meccanismo perverso con cui il sistema di potere agisce inglobando gli individui al suo interno e svilendone l’identità in maniera opprimente.
L’apparato societario lascia che persistano delle zone di minore pressione sui suoi appartenenti, per non alimentare estremismi troppo clamorosi. Il proposito che il sistema di potere persegue è quello di dare un’impressione di stabilità, onde mantenere una condizione di equilibrio che gli consenta di perseguitare i suoi detrattori “a piccole dosi” ed evitare, così, il rischio di lasciar franare tutto rovinosamente.
Non c’è modo di opporsi a questo tormento. Si tratta di resistere, il che comporta che si debba giungere a fare dei compromessi. Il fatto stesso che si accetti di scrivere e pubblicare su certe riviste, per esempio, è un punto di incontro su cui si è costretti a convergere, pur mantenendo la propria lealtà.
«È una specie di braccio di ferro che noi facciamo cinicamente: essi strumentalizzano me, avendomi preso come curiosità, come nome, e non come persona; io strumentalizzo loro, e poi vediamo a chi conviene più».
La condizione esistenziale dell’intellettuale, come riferisce Pasolini, pur essendo quella di un individuo “in vista” e perciò esposto alle critiche altrui, è comunque una posizione che gli consente di non farsi condizionare dai giudizi della gente.
L’uomo di cultura, nei termini in cui Pasolini ne intende la vita, la coscienza e la mentalità, è un individuo che vive di intelletto e di fantasia e che, quindi, non ha bisogno di stare a stretto contatto con chi lo critica o con chi non ne condivide le posizioni. Gli è più facile non farsi condizionare. L’uomo di cultura ha delle potenzialità, intellettive e anche materiali, che lo mettono nelle condizioni di essere più capace degli altri di autonomia e di indipendenza dai condizionamenti.
Una persona che queste potenzialità non le possiede, specie se povera o in condizioni di difficoltà di altro tipo, non può permettersi di vivere in maniera isolata. Essendo molte le persone che si trovano in tali condizioni, ecco che allora il problema acquista un’ampiezza di carattere strutturale. Tutta la collettività ne viene coinvolta.
Alla luce di questo allargamento in una prospettiva che supera i confini della psicologia e dell’esistenza del singolo, Pasolini dichiara di schierarsi esplicitamente “dalla parte di chi vorrebbe la rivoluzione”.
È pur sempre un privilegio quello di essere una persona cosciente di se stessa. È un valore aggiunto quello di poter gestire il proprio tempo e di impiegare spazi della propria giornata a pensare e a studiare, mettendosi alla ricerca della soluzione al problema. E i privilegi, secondo Pasolini, non dovrebbero esistere.
Sembra una considerazione ovvia e banale da ribadire, ma per fare la rivoluzione bisogna prima ottemperare alle necessità biologiche ed esistenziali che consentono di vivere.
Fatto ineluttabile ed ontologico rispetto al quale bisogna essere realisti e pratici, e che giustifica il compromesso, è che nonostante ci si trovi in una realtà caratterizzata da una diffusa ingiustizia sociale bisogna pur pensare a soddisfare le proprie esigenze di base. E nella vita ci sono degli agi, consentiti dal guadagno, a cui non si può o non si vuole rinunciare.
Il dilemma moralistico del parlare di poveri pur non vivendo da poveri richiede di accettare il compromesso del “meno peggio”.
Pasolini intende la lotta per rivoluzionare il sistema di potere e l’assetto costitutivo della società come un’opposizione ideologica contro un certo indirizzo di pensiero contro cui egli si scaglia. Allo stesso tempo, il suo approccio è votato a una continua ricerca di punti di accordo con gli altri individui e con le altre realtà sociali con le quali instaura un rapporto di scambio dialogico.
Tutta la produzione artistica e tutto l’operato di Pasolini non sono pensati con l’obiettivo di educare i destinatari delle sue opere. L’autore bolognese non è affatto convinto che comporti alcun vantaggio l’approccio pedagogico nei confronti del pubblico a cui egli si rivolge.
Egli ritiene anzi che sia una forma di avvicinamento agli altri scorretta e falsamente altruistica quella che nasce dall’intento di educare. «Non credo nella tecnica dell’abbassarsi per elevare: la considero una grande ipocrisia. Chi la usa è un ipocrita. L’idea dell’elevare il prossimo è una idea moralista sbagliata: nessuno di noi ha il diritto di elevare gli altri».
Molto scettico nei confronti anche della funzione svolta sul piano educativo dalla scuola, Pasolini riconosce che l’apprendimento, in realtà, avviene sempre e solo in maniera autonoma: «ogni educazione è una autoeducazione: si educa a livello pari, e non dall’alto». È per questo motivo che l’obiettivo che egli si pone «non è mai quello di educare, ma quello di instaurare un dialogo».
Sono passati più di cinquant’anni da questa conversazione tra Pasolini e Carioti. Il dialogo tra i due si sviluppa intorno a questioni che, cionondimeno, risultano perlopiù sovrapponibili a diversi problemi attuali.
Di Pasolini è condivisibile l’istanza rivoluzionaria, finalizzata a ribaltare radicalmente l’assetto costitutivo della realtà, all’interno della quale egli si trova immerso e vive avvantaggiandosi di alcuni privilegi che rendono favorevole la posizione da cui lui guarda al mondo.
Lo riconosce lui stesso di essere un privilegiato. Ma non è per via di questa sua presunta contraddittorietà che Pasolini rappresenta un modello non pienamente adottabile ai fini della battaglia che la nostra contemporaneità ci obbliga ad abbracciare.
È vero: dopo due decenni di questo disarmante XXI secolo, la società attuale manca persino della capacità di valorizzare i meriti di chi, per talento o abilità, dimostra la propria bravura. Prima era quantomeno possibile ottenere riconoscimenti e gratificazioni.
Ma ciò che non risulta condivisibile del pensiero di Pasolini è la sua fiducia, quasi cieca, nel prossimo. Non è possibile accettare il suo approccio di eccessiva apertura nei confronti degli strati più bassi della società e la sua esaltazione della vivacità entusiastica del popolo, a dispetto di una consapevolezza della vita acquisibile soltanto attraverso lo studio e l’accrescimento della cultura.
La lotta per rivoluzionare il mondo non richiede il coinvolgimento delle masse ma sarà possibile attraverso l’acquisizione di una determinazione ad agire da parte di chi, per consapevolezza e profondità culturale, saprà distinguersi dagli altri.
Sono in pochi coloro i quali si riveleranno capaci di proporre e di perseguire un’alternativa condivisibile. In virtù dei loro meriti gli si riconoscerà la capacità di convincere gli altri grazie all’innegabile validità della loro proposta.
Essere coscienti di se stessi, usare il proprio tempo per crescere culturalmente ed essere sempre più liberi dai condizionamenti:ecco il valore della Casa della Civiltà. Grazie Davide.
Proprio così. Grazie Debora, hai proprio colto l’aspetto cruciale del messaggio intrinseco a quanto ho scritto e che ho inteso comunicare.
Pasolini, se fosse stato ancora in vita, lo avrei visto molto bene dentro la CDC.
Di sicuro sarebbe stato un personaggio esemplare per la sua onestà intellettuale e per l’integerrimo credo nei valori per cui ha combattuto. Sarebbero stati sostanziali i punti di accordo con noi.