Oggi è il centenario della nascita di Giovanni Sartori, maestro di color che sanno nella scienza politica. Non ha insegnato solo agli studenti ma anche agli studiosi, e avrebbe voluto impartire lezioni di politica anche ai politici. La sua amarezza di consigliere inascoltato in tema di riforme e costituzione si stemperò nell’ironia fiorentina con cui seguì le vicende della politica in Italia. I politici furono impermeabili ai teoremi del professore e ai suoi rimbrotti. Sartori appartenne alla cerchia privilegiata degli zii d’America, ovvero i maestri italiani con passaporto Usa. In un paese esterofilo come il nostro, i pensieri in trasferta, come i goal in coppa, valgono il doppio. Figuriamoci dagli States. Democrazia e definizioni resta il suo capolavoro più citato.
Come Hegel Sartori ha generato negli studi politologici una destra e una sinistra sartoriana, e un centro. Lui tenne a dirsi super partes anche se le sue finestre sull’Italia spiegavano meglio la sua collocazione: egli scriveva sul Corriere della sera e su l’Espresso.
I pochi che lo ricorderanno domani magari punteranno sulla sua critica al premierato (o a Berlusconi); ma al di là dell’ingegneria costituzionale, che di per sé privilegia le costruzioni teoriche sulla situazione storica e l’efficacia reale in tema di decisione e partecipazione, di sovranità popolare, nazionale e politica, c’è un saggio di Sartori che merita di essere ricordato. È dedicato all’immigrazione: Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Ha un taglio da gran conservatore, realista ma non ideologico, liberale ma non troppo.
La polemica strisciante che percorre il testo è col multiculturalismo di estrazione marxista, il “fasullo terzomondismo nel quale confluiscono sinistre e populismo cattolico”. Non conosceva ancora i predicatori istituzionali e vaticani dell’accoglienza e la retorica, la prassi e la pessima gestione dei flussi migratori divenuti sempre più massicci. Al contrario, l’atteggiamento di Sartori sull’immigrazione è improntato a una severa diffidenza e un parco uso di aperture. Se non fosse stato Sartori a scriverle, lui che diventò o quantomeno fu usato come vessillo contro il berlusconismo e le destre al governo, sarebbero apparse inaccettabili affermazioni di questo tipo: “L’Europa è sotto assedio, e oramai accoglie immigranti soprattutto perché non sa come fermarli” ma “il problema non può essere risolto e nemmeno attenuato dall’accogliere più immigrati…Gli entrati non servono a ridurre il numero degli entrandi; semmai servono a richiamarne di più”. In particolare Sartori critica le sanatorie in massa e l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina che resta, a suo parere, “una cattiva immigrazione”. Una linea avversa al filantropismo prevalso poi negli anni.
Sartori nega che l’Italia sia o possa diventare un paese razzista. Nega che estendere il diritto di voto possa prevenire atteggiamenti razzisti e nega che ci sia discriminazione fondata sul colore della pelle o sulla povertà: gli asiatici, nota Sartori, sono entrati poverissimi ma non sono affatto disprezzati.
Resistere a un’invasione di immigrati non è razzismo, diceva Sartori. Ma “ammesso e non concesso che questo sia razzismo, allora la colpa di questo razzismo è di chi lo ha creato”. Ovvero di chi ha generato le condizioni per una difficile convivenza. Il razzismo è per Sartori “un’accusa sbrigativa, superficiale, che generalizza troppo, e che rischia di essere altamente controproducente. Chi viene denunziato come razzista senza esserlo, s’infuria, e magari finisce per diventarlo davvero”. Sartori contestava il progetto multiculturale che, a suo dire, può solo approdare a un “sistema di tribù”, a separazioni culturali disintegranti, non integranti. Come di fatto sta accadendo, soprattutto in quei paesi come la Francia in cui è fallito il modello integrazionista; ma non funziona bene nemmeno nelle società multietniche del tipo inglese o americano. Sartori notava che il criterio principe per assorbire gli immigrati è la reciprocità: ti accogliamo e ti tolleriamo a condizione che tu non ti senta estraneo e ostile alla nostra società, alle sue leggi, ai suoi valori. La stessa reciprocità dovrebbe riguardare gli stati. Resta difficile per Sartori la compatibilità con gli islamici che a suo dire hanno una visione del mondo teocratica, opposta a quella occidentale.
Sartori difese il principio d’identità proprio sul confine tra noi e loro. Il senso del confine resta fondamentale in politica, secondo Sartori, che non cede all’ideologia senza frontiere dello sconfinamento, oggi predominante.
Resta qualche dubbio su alcune sue tesi. Se davvero la tolleranza è fondata come lui dice sulla reciprocità, allora diventerebbe impraticabile e non solo con gli immigrati. La reciprocità è un ottimo ideale regolativo: ma nella realtà è impossibile per l’inevitabile asimmetria dei mondi e dei sistemi a confronto. Il criterio della reciprocità va improntato a un sano realismo: lo Stato di diritto liberale o l’universalità “kantiana” vale solo in Occidente, almeno in teoria.
Per Sartori la causa dell’immigrazione è la sovrappopolazione e una responsabilità speciale è della “Chiesa cattolica che si ostina irresponsabilmente a promuovere le nascite”. La sovrappopolazione per Sartori è un’emergenza mondiale ma l’immigrazione è innescata più dalla globalizzazione e dall’occidentalizzazione del mondo. Quanto al boom demografico, le colpe della Chiesa sono modeste se si considera che più dei cinque sesti del pianeta non sono cattolici o cristiani e i paesi a più alto tasso di natalità sono islamici, induisti, tribali o d’altre religioni. Il messaggio cristiano, crescete e moltiplicatevi, sarebbe prezioso per l’Europa cristiana dove le bare superano le culle, e invece resta inascoltato.
La vera “scoperta” in età senile di Vanni Sartori è la comunità. Il politologo nota che quando la sovrastruttura (la nazione, lo Stato sovrano, l’impero) si disgrega, torniamo inevitabilmente all’infrastruttura primordiale, la comunità, intesa come organismo vivente. Sartori sposa l’idea di comunità nell’accezione più classica e più forte, quella di Tönnies che identifica con la “comunità concreta”. La comunità, secondo Sartori si coagula e si rafforza intorno al comune sentire e può ben riferirsi anche a comunità larghe. Ma parlare di comunità mondiale, come fa Dahrendorf “è pura retorica, è vaporizzare il concetto di comunità”.
Famosa è la sua polemica contro la videocrazia anche se fu ridotta in chiave di antiberlusconismo (sagacemente Sartori paragonò Berlusconi a un sultano); ma la sua era una critica aristocratica e conservatrice alla sottocultura televisiva, al “pensiero brodaglia” e all’inutilità di menti pensanti nell’era dell’homo videns e della videodipendenza.
Con Sartori ebbi alcuni dibattiti e qualche diverbio ma era un piacere litigare con la sua intelligenza vivace; benché autorevole “barone” non aveva il sussiego dei tromboni. Scienziato ma ironico.
La Verità – 12 maggio 2024