La lingua italiana nasce ben prima dell’Italia in quanto Nazione. Si può anzi affermare che l’Italia, entità patriottica afferente a una medesima realtà culturale, ideale e solo successivamente politica, si sia affermata e consolidata proprio in virtù della codificazione di una lingua unitaria con regole strutturali precise.
Il fatto stesso che ci sia stato un periodo storico caratterizzato dal bisogno di confrontarsi sulla necessità di fissare i criteri sui quali convergere per individuare un modello linguistico condiviso, fa capire in che misura la questione identitaria, legata a uno strumento comunicativo unico da adottare all’interno della comunità italiana, fosse percepita di importanza preminente tra gli studiosi.
La questione della lingua si articola, in Italia, in maniera alquanto complessa. Sono diversi gli orientamenti che si accavallano tra loro con interpretazioni e proposte a volte discordanti, altre volte rette dal bisogno di precisare, sulla base di sottili sfumature e di confronti precisi, linee di sviluppo e preferenze sorrette da ragionamenti specialistici e da confronti tecnici.
Dato incontrovertibile è che l’Italia, nel Cinquecento, sia caratterizzata dalla presenza di una molteplicità estremamente eterogenea di idiomi parlati. Già da diversi secoli la dimensione della scrittura ha assunto un’identità del tutto alternativa rispetto a quella dell’oralità.
La storia culturale dell’Italia si è da subito configurata nei termini di una divaricazione tra l’ambito della cultura e della sfera alta della società, improntata a un carattere di aristocratico orgoglio del possesso degli strumenti elitari della scrittura, e quindi della conoscenza e del sapere, e la sfera triviale e bassa della popolazione, caratterizzata dalla sua estraneità al mondo culturale, incivile e retta dagli istinti, priva di quell’educazione alla bellezza che sostanzia la tradizione artistica del nostro passato.
Secondo gli orientamenti critici più accreditati il Cinquecento non è solo un’età di letterati e di grammatici. L’intento di alcuni dei grandi uomini del secolo non è limitabile alla ricerca della perfezione formale fine a se stessa. L’epoca tutta presenta manifestazioni, a diversi livelli, del perpetuarsi dell’aspirazione a un sereno equilibrio di concetti e forme, di realtà e irrealtà.
È la ricerca di quell’incontro perfetto tra forma e contenuto che rappresenta l’idea artistica ed esistenziale da raggiungere e diffondere, nel proposito di ottenere decoro e compostezza, che pone l’armonia come virtù al centro del mondo e dell’esistenza tutta.
La ricerca di grazia e di armonia ha un valore etico. Si tratta cioè del portato alla base già dell’umanesimo che adesso si fa sostanza per la realizzazione di una nuova civiltà basata sull’intelligenza, sulla sapienza e sulla capacità di relazionare sapientemente i vari aspetti della vita in una visione olistica dell’esistenza.
In un clima di questo tipo, la strada da intraprendere viene indicata nel 1516 da Giovan Francesco Fortunio, grammatico e umanista italiano attivo a Trieste. Egli scrive la prima grammatica del volgare realizzata a stampa e la intitola Regole grammaticali della volgar lingua. Si tratta di un’analisi morfologica ed ortografica della lingua volgare toscana, attraverso il riferimento alle opere trecentesche di Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Quella che propone Fortunio, quindi, non è una lingua viva ma si tratta di un idioma le cui caratteristiche corrispondono a quelle della lingua usata dai tre più prestigiosi scrittori italiani di origine toscana, vissuti e attivi ben due secoli prima.
Il riconoscimento di un valore esemplare all’esperienza eccellente delle Tre Corone del Trecento dimostra l’ormai maturo valore riconosciuto all’ “auctoritas” dei tre grandi scrittori fiorentini del passato.
Il modello linguistico più autorevole è quello proposto da Pietro Bembo, studioso italiano di origine veneziana, fortemente convinto della superiorità dell’esempio petrarchesco di poesia lirica e determinato ad attualizzarne il valore insuperabile sul piano stilistico e grammaticale.
Il petrarchismo di Bembo è mosso da un profondo bisogno di legare la letteratura a una tradizione di valore alto. Il suo intento coincide con i propositi alla base di quell’orientamento culturale di ispirazione classicistica che intende contrapporre esempi letterari e artistici nobili alla bassezza dell’inciviltà barbara e volgare.
L’urgenza di elaborare un modello linguistico che rifletta la virtù della bellezza e dell’eleganza a discapito della bruttezza e della bieca trivialità degli idiomi parlati dalla popolazione incolta, induce Bembo a non prendere a modello Dante, scartato per la varietà stilistica del suo approccio letterario che alterna registri molto alti a scelte linguistiche anche scurrili e volgari. Al grande fiorentino viene di gran lunga preferito Petrarca, esempio perfetto delle virtù auliche della lingua volgare toscana.
L’epoca rinascimentale è ricchissima di esperienze letterarie che confermano la piena assimilazione del modello lirico petrarchesco nelle coscienze e soprattutto nelle tecniche realizzative della poesia. Il Canzoniere viene studiato e letto ed è viepiù oggetto di un’ampia attività filologica e di analisi grammaticale. Vasta è la redazione editoriale di commenti integrali all’opera petrarchesca. Ampia è la produzione in versi di scrittori che si approcciano al recupero manieristico dell’esempio di Petrarca, raggiungendo livelli di apprezzabilità generalmente modesti.
Le Prose della volgar lingua di Bembo, pubblicate nel 1525, sono il manifesto codificato del petrarchismo e rappresentano anche una vera e propria grammatica dell’idioma volgare fiorentino compilata secondo il nuovo gusto letterario, solo anticipato da Fortunio. L’opera ha un’impostazione dialogica. Si immagina che prendano parte al dialogo Carlo Bembo, fratello di Pietro, Giuliano de’ Medici, Federico Fregoso ed Ercole Strozzi.
Nel primo libro si parla delle origini delle lingue volgari a partire dal latino e dal contatto con gli idiomi barbari. Tra tutti i volgari viene dato particolare risalto al fiorentino di cui si sottolinea l’eccellenza nell’uso che ne hanno fatto Petrarca e Boccaccio.
Nel secondo libro vengono fornite indicazioni, in termini di norme di stile, in merito al modo più opportuno di procedere nel dare ordine alle parole, in relazione alla metrica e alle regole del ritmo, attraverso esempi attinti dal Canzoniere e dal Decameron. Nel terzo libro, che è il più ampio, l’autore, sempre attraverso il ricorso agli esempi, discute dei precetti della grammatica.
Le conclusioni alle quali si giunge è che la nuova lingua, forte ormai di una lunga e luminosa tradizione, può adesso svilupparsi in quanto idioma su cui costruire una nuova prestigiosa letteratura di pari dignità rispetto agli esempi a cui Bembo fa capo.
Così come precedentemente anticipato da Fortunio, anche Bembo avvalora la scelta di concentrarsi su una lingua che è quella letteraria e non certo quella di uso pratico, del conversare quotidiano. Lo studioso afferma che «la lingua delle scritture non dee a quella del popolo accostarsi se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità, non perde grandezza; che altramente ella discostarsi se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vigore e gentile stato […]».
A Bembo interessa la qualità e non la quantità: a rappresentare la virtù sono in pochi, cioè quelli che, grazie al proprio valore, possiedono autorevolezza. Il riferimento a Petrarca e a Boccaccio è giustificato dal fatto che a partire da loro, in avanti, il loro livello di perfezione e di bellezza nell’uso della lingua non è stato eguagliato da nessun altro.
Tutto il discorso di Bembo è sorretto da un piglio polemico contro la degenerazione qualitativa subita dalla lingua nel corso del Quattrocento. Il che, allo stesso tempo, ha confermato una forte decadenza dei livelli letterari raggiunti dalle esperienze artistiche degli scrittori.
La posizione di Bembo è quella di un intellettuale che rifiuta la lingua cortigiana e che si oppone alle scelte linguistiche licenziose e improntate in senso popolaresco di Pulci, troppo legate all’uso volgare contemporaneo.
Il pregio maggiore della proposta di Bembo sta nel profondo senso di armonia e di grazia che caratterizza il modello linguistico da lui elaborato. Lo spirito rinascimentale che anima Bembo è dettato da un vagheggiamento sincero dell’armonia e della bellezza, che giunge in certi casi a configurarsi come un vero e proprio culto.
Il gusto tipicamente cinquecentesco si rivela nelle Prose di Bembo assimilato nella formulazione teorica degli aspetti specifici del problema linguistico, ma è tale da trascendere i confini del quadro polemico intorno alla questione della lingua, improntandosi a un bisogno esistenziale di attingere alla perfezione e alla piena realizzazione, tutta umana, di sé e dell’Italia. Il suo limite, forse, è l’essersi mostrato pregiudizialmente troppo avverso nei confronti dell’uso vivo e parlato.
A differenza di Bembo, altri scrittori, in quegli stessi anni, sono orientati a un modello linguistico ibrido. Baldassarre Castiglione, autore de Il Cortegiano, scrittore non toscano, ritiene che non si debba disprezzare l’idea di riferirsi a forme linguistiche correnti in Italia, facendo capo però solo a coloro i quali, pur non essendo toscani, possiedono comunque grazia e armonia nello stile. Diverse sue considerazioni anticipano un tipo di approccio moderno alle questioni linguistiche.
Anche Castiglione, però, converge sulla convinzione che si debba puntare a un modello di lingua aristocratico e selettivo. La sua novità consiste nel suggerimento di assegnare all’educazione linguistica limiti meno rigidi.
Gian Giorgio Trissino riprende, dal canto suo, le teorie elaborate da Dante nel De vulgari eloquentia e le fa proprie nel suo Il Castellano del 1529. La lingua proposta da Trissino è una lingua italiana che sia il punto di incontro tra tutti i dialetti parlati nella penisola, cogliendo tra essi gli elementi generici di convergenza e di analogia.
Un’altra tendenza è quella dei teorici di una lingua che sia italiana in quanto determinata dall’apporto linguistico che dovrebbero arrecare tutti i letterati provenienti da tutte le province della penisola. Questi teorici, e in parte anche Trissino, cadono nell’errore di non riconoscere il carattere essenzialmente fiorentino della nostra tradizione linguistica e letteraria e di non rendersi conto che quell’elemento di affinità che, indubbiamente, tutti gli idiomi italici presentano, è dato proprio da quel medesimo illustre passato letterario comune a tutta l’Italia.
Altri pensatori, infine, concordano sull’opportunità di insistere sulla fiorentinità della lingua da proporre ma tendono a confondere il dialetto della loro città con la lingua di tutta la Nazione. Essi, cioè, non riconoscono la centralità dell’obiettivo di puntare a un modello di lingua ideale e incorruttibile, illustre e perfetta nonché, inevitabilmente, astratta.
I dibattiti continueranno ma si smorzeranno e si trasformeranno sempre più in confronti specialistici tra tecnici e filologi. Nel 1583 nascerà l’Accademia della Crusca, la cui attività individuerà un modello unitario a cui uniformarsi nell’uso linguistico a livello pratico e pedagogico e indicherà, per ogni settore della grammatica, i precisi lineamenti di un idioma che, nell’ambito della produzione letteraria, da allora a oggi si è mantenuto, nella sostanza, pressoché inalterato.