Julius Evola, il maledetto. Quando morì, nel giugno di 50 anni fa, fu liquidato sui giornali con piccoli, malevoli trafiletti, presentato come l’ideologo nero (pochi giorni prima c’era stata la strage di Piazza della Loggia, a Brescia). Autore proibito, in vita, in morte e ancora adesso, mezzo secolo dopo.
Ma di Evola, in realtà, ce ne sono almeno cinque. C’è l’Evola pittore, dadaista ultramoderno, appena ventenne, il maggiore e originale seguace di Tristan Tsara e autore di poche ma memorabili opere dada che a volte tornano in mostre e cataloghi. Poi venne l’Evola filosofo, neanche trentenne, ultraidealista e ultranietzscheano, teorico dell’Individuo Assoluto e dell’idealismo magico. Seguì l’Evola mago, cultore di esoterismo e dell’uomo come potenza, figura circondata da un alone di mistero. Quindi apparve l’Evola pensatore della Tradizione, con la T maiuscola, in opposizione al mondo moderno, spesso associato a René Guénon. E ci fu infine, l’Evola ideologo, che nutrì generazioni di giovani, cultore dell’uomo differenziato nel suo radicalismo aristocratico, gerarchico e impolitico, che aveva criticato da destra il fascismo, aveva teorizzato per un breve, infausto periodo, il razzismo spirituale; e poi aveva oscillato tra gli uomini in piedi tra le rovine, legionari dello spirito, fino al solitario eroismo di chi cavalca la tigre della modernità per non farsi travolgere e sopraffare.
Di quei cinque Evola, restava però solo la nomea sinistra del razzista, ideologo, suo malgrado, dalla destra più radicale e più radicalmente antimoderna; lui che veniva dall’arte e dal pensiero ultramoderno e che in fondo aveva dissuaso non pochi giovani dall’impegno politico e dalla militanza. E nel mezzo, l’Evola che viene pubblicato, grazie a Croce, da Laterza, apprezzato da non pochi grandi del suo tempo; l’Evola che poi traduce nel dopoguerra il Tramonto dell’Occidente di Spengler, l’Operaio di Junger e l’Uomo contro l’umano di Marcel, e fa circolare in Italia altri autori della Tradizione e della Rivoluzione conservatrice europea.
Emarginato al tempo del fascismo, malvisto poi a destra per la fama di iettatore, critico del ’68; ma autore che, nonostante i divieti, continua ancora a circolare con le sue opere, tuttora tradotte e ristampate, e trova lettori e seguaci tra più generazioni. Anch’io da ragazzo fui lettore assiduo di Evola e mi laureai in filosofia con una tesi sul suo pensiero, poi pubblicata; ma fu proprio quella tesi che segnò il mio allontanamento dal suo pensiero, che criticai in quella sede. Era una sfida, in quel tempo, laurearsi con una tesi su Evola in una facoltà completamente orientata a sinistra, con un corpo docente oscillante tra il Pci e l’estrema sinistra, e un movimento studentesco più che estremista, contiguo all’eversione rossa.
La sua era, a mio parere, una visione della Tradizione del tutto separata dalla storia e avulsa dalla realtà, di un autore che restò fedele al suo giovanile individualismo assoluto e refrattario a ogni idea che evocasse i fondamenti comuni della tradizione: l’idea di Dio, il richiamo alla fede, l’amor patrio, il senso della tradizione italiana e la centralità della famiglia. Mondi a lui estranei. La sua stessa critica al fascismo, rivolta soprattutto ai suoi aspetti retorici e populistici, demagogici e tribunizi, ruotava intorno a una tesi irrealistica: il fascismo poteva essere una grande idea ma era stata “rovinata” dall’indole italiana; così come a suo parere il nazismo era stato rovinato dal materialismo biologico e dal fanatismo nazional-socialista e populista. Tesi speculare a chi difendeva il comunismo come ideale rispetto alle sue traduzioni storiche e politiche viste come tradimenti.
Ho fatto più volte i conti con Evola e non ho mai smesso di considerare l’importanza del suo pensiero, il suo respiro ampio e lo sguardo lungo, trasgressivo anche rispetto ai canoni consueti della tradizione e del sentire comune.
E oggi? Evola è una lettura preziosa per leggere criticamente il nostro tempo, per respingere ogni idea rivoluzionaria, progressista e perfino conservatrice, nazionalista o liberale. Proprio per questa sua totale lontananza da questi orizzonti, andava letto e ripensato. In un’epoca totalmente sopraffatta dallo spirito del tempo e dal conformismo conseguente, Evola apriva altri orizzonti, altre sfide. Leggerlo ancora oggi alla luce del suo “razzismo spirituale” significa ridurre un’opera ricca, anche di contraddizioni, a un passaggio infelice che, come scrisse Renzo De Felice, fu però percorso con una sua coerenza e dignità, senza cedere al fanatismo di molti razzisti che poi si scoprirono antifascisti e antirazzisti.
Evola non entrò mai nelle università, nella cultura ufficiale e istituzionale, nei grandi giornali, né in epoca fascista né in epoca antifascista. Poi ci sono i misteri della sua vita, sulla sua famiglia, sul suo titolo di barone; la sua vita da dandy, tra Roma e Capri, i suoi incontri e i suoi scontri. I chiaroscuri della sua biografia e del suo pensiero, i suoi tratti di mago, anzi dottor Occultis, per dirla in un linguaggio pop, accrescono l’alone di fascino di quel maestro che non voleva discepoli. Anche se poi ne ha avuti. Due tra tutti: Adriano Romualdi, il suo primo biografo, che morì un anno prima di Evola, a soli trentatré anni, e Gianfranco de Turris, curatore dell’opera e della Fondazione Evola. Studiosi di orientamenti molto lontani da Evola ne hanno riconosciuto col tempo lo spessore e l’importanza. Ma l’anatema su Evola dura ancora.
(Panorama n.27)