Ma davvero le ultime elezioni europee, premiando la Meloni e la Schlein, hanno rilanciato il bipolarismo in Italia, la vecchia contrapposizione tra destra e sinistra? È la tesi che ha prevalso nei commenti, al punto che il Corriere della sera, sulla scia di Walter Veltroni, ha visto nell’affermazione delle due donne “Una vittoria che fa bene alla partecipazione” (Barbara Stefanelli). Verrebbe voglia di concordare, ma è successo proprio il contrario: la loro affermazione coincide con il minimo di partecipazione degli italiani al voto. Dire il contrario magari ci conforta ma non corrisponde al quadro generale; nella migliore delle ipotesi significa soffermarsi sulla parte e non prendere in considerazione il tutto. La realtà dice una cosa diversa: c’è un bipolarismo piccolo, fondato sulla rinnovata polarizzazione tra destra e sinistra, e tra la Meloni e la Schlein, rispetto a cui gli altri soggetti in campo soffrono la marginalizzazione. Ma quel bipolarismo piccolo è dentro un bipolarismo grande, che divide gli italiani tra presenti e assenti, votanti e astenuti, insider e outsider, persistenti e sfuggenti dalla politica. E di quella biforcazione sono da evidenziare due caratteristiche: da un verso ci sono vari gradini intermedi, non c’è una netta divisione tra contenti e scontenti, o anche tra chi si accontenta e chi è incontentabile. E dall’altro verso il partito dei senza partito, senza voto, senza riferimento, è ormai maggioritario in Italia e in Europa. Maggioranza ora assoluta. E dà l’impressione di essere leggermente più compatto, più omogeneo, pur nel suo individualismo di fondo, rispetto a chi va a votare ma si disperde in tanti rivoli e dà vita a quel bipolarismo piccolo di cui si diceva prima (che comunque riguarda “solo” il 53 per cento dei votanti: anche la metà dei votanti non si riconosce in quel bipolarismo).
Non penso che il non voto, come si ripete da tempo, sia il segno di una democrazia matura che non va a votare perché non avverte il pericolo che arrivino da qualche parte i barbari, sa che si può non andare a votare e poi non succede niente di irreparabile. Semmai il contrario: la gente non va a votare proprio perché dopo, come di fatto sta accadendo, non succede poi nulla; tutto resta più o meno come prima. Il non voto resta il segno di un chiamarsi fuori dallo spazio pubblico, è un segno di insofferenza e insieme di sfiducia nella possibilità di modificare qualcosa e di contare qualcosa.
La democrazia si sta svuotando dall’interno, non per assalti esterni né per tentazioni dittatoriali. Il sovrano abdica, ovvero il popolo sovrano tende sempre più a non esercitare il suo potere sia perché non è particolarmente interessato sia perché avverte l’impossibilità di incidere realmente. Ma disertando le urne lascia le chiavi del comando proprio a coloro che non ama e contro cui protesta col non voto. Come definire questa tendenza? Spopulismo, ovvero lo spopolamento della partecipazione politica.
Alla diffusa anemia della politica si aggiunge una speciale antipatia nei confronti degli assetti europei, del parlamento europeo, del profilo scadente e impotente dell’unione europea. Non un voto contro l’Europa ma un atto di sfiducia verso questa Europa, il suo establishment; una percezione di estraneità che diventa poi un atto di ostilità. Anche nel caso europeo prevale la sensazione di non contare, di non poter mutare gli assetti tramite il voto; e le manovre in corso dopo il voto sembrano in effetti confermare che poco o nulla stia cambiando nonostante le indicazioni popolari. I perdenti pretendono di muovere le fila e decidere sul futuro.
Però non c’è soltanto un distacco crescente dall’Europa, dalla politica, dalla democrazia. C’è qualcosa di più profondo che va affrontato. Con un’accelerazione sorprendente unita a una larga inavvertenza di quel che sta succedendo, sta accadendo qualcosa di più ampio e più radicale: la non partecipazione, il non interesse, la defezione investe ormai una serie di ambiti un tempo importanti per la nostra società. La gente diserta ormai ogni chiesa, ogni fede, non solo religiosa, e ogni legame comunitario, non solo famigliare. Ma non solo: la gente dimentica, cancella, rimuove la memoria storica e il senso degli eventi accaduti; scema l’attenzione per le idee, per il pensiero e la cultura in senso generale. E diminuisce l’attenzione verso i media, la lettura dei giornali, calano i talk show.
Siamo nel pieno di una evacuazione di massa da tutti gli ambiti in cui vi era partecipazione, afflato comunitario, interesse condiviso, dialogo, orizzonte pubblico e dimensione civile.
Non è solo la politica a ritirarsi, e non solo solo le asfittiche dialettiche tra cittadini e poteri a determinare questo progressivo appartarsi e isolarsi della gente. C’è qualcosa di più profondo, che sembra collegato a un minore uso ed esercizio delle facoltà critiche, intellettive, passionali, mnemoniche, simboliche. Ed è ancora da sottolineare che non si tratta di un venir meno delle passioni e delle fedi per un maturarsi della ragion critica e del pensiero, perché il declino investe entrambi, la mente e il cuore, la passione e la ragione, gli accessi dovuti alla sfera dell’emozione e insieme a quelli dovuti alla sfera logica e razionale.
È in corso un massiccio ritirarsi da tutto ciò che ci legava alla vita pubblica e alle relazioni sociali, un venir meno da ogni contesto e comunità, un volontario dimettersi da ogni orizzonte di aspettativa come da ogni provenienza comune e da ogni progetto condiviso. Insomma, le ragioni della defezione dalla politica non sono solo politiche, ma esistenziali.
È un restringersi della prospettiva di vita in cui siamo situati, un rendere non solo momentanei ma anche singolari i nostri stati d’animo e le nostre fugaci relazioni “prensili” col mondo.
In tutto questo è davvero patetico – come nota Massimo Cacciari – pensare come fa la sinistra odierna che “per arginare la destra bastino l’antifascismo e bella ciao”. Non capiscono, non solo a sinistra, che la gente sta rivolgendo a loro un “bella ciao” corale per congedarsi da tutta la compagnia cantante.
La Verità – 23 giugno 2024