Intervista a cura di Alberto Folgheraiter per il T Quotidiano
Giornalista, scrittore e filosofo. Nell’argenteria degli intellettuali di destra, non particolarmente affollata, Marcello Veneziani (1955) è tra le posate più scintillanti. Laureato in filosofia all’università di Bari, ha cominciato a fare il giornalista nel 1977. Dopo una collaborazione con “La Voce del Sud”, nel 1979 è entrato nella redazione di Bari del quotidiano di Roma, “il Tempo”. Praticantato a “Il Giornale d’Italia”, giornalista professionista dal 1982. Ha lavorato al “Giornale” con Indro Montanelli e soprattutto con Vittorio Feltri, fiori all’occhiello del giornalismo di destra in Italia. È stato redattore al “Giornale radio della mezzanotte”, in Rai, azienda per la quale ha fatto pure il consigliere di amministrazione all’inizio del Duemila. Oggi è editorialista di “Panorama” e del quotidiano “La Verità” (in lingua russa: “La Pravda”).
Che cos’è la verità? chiese Ponzio Pilato a Gesù Cristo. Molto più modestamente lo chiediamo a lei?
“Innanzitutto è una cosa più grande di noi, verso cui noi potremo tendere ma che non potremo mai raggiungere. Noi siamo dentro la verità e possiamo scoprirne solo un lato. Ma la passione di verità è quel che dovrebbe animare il saggio”.
Che cosa vuol dire essere un intellettuale di destra, Veneziani?
“Non mi sono posto il problema durante questi decenni. Nel senso che ho scritto e pensato indipendentemente da questa etichetta. Poi, che sia un intellettuale e sia di destra non lo smentisco ma non riassume compiutamente tutto il mio pensiero”. Fino a qualche anno fa per un intellettuale proclamarsi “di destra” poteva essere una posizione elitaria (ancorché scomoda) da “bastian contrario”.
Oggi che la destra governa l’Italia?
“Credo che sia più o meno la stessa cosa. Perché è rimasta l’egemonia culturale di quel mainstream che con qualche difficoltà, oggi, definisco di sinistra. Per l’intellettuale di destra c’è poco spazio: fingono che non esista o è stigmatizzato ”.
Veneziani, nel 2013 pubblicò sul quotidiano “Libero” una lettera a sua figlia Federica con l’invito: “Non vergognarti di un papà fascista”. Era rivolto solo a lei?
“Il titolo non è mio, riprendeva una cosa che era stata detta a mia figlia. Cioè le aveva detto di negare che fossi suo padre, perché reputato intellettuale fascista. Pertanto le dicevo: “Non devi vergognarti di tuo padre che ha sempre espresso le sue idee alla luce del sole, con coerenza e onestà, senza mai violentare il pensiero degli altri”. Era questo il senso di quella lettera che ebbe molto successo, anche in ambienti non proprio di destra”.
Ha mai avuto problemi, ha mai temuto per la propria incolumità fisica?
“Ho avuto molti problemi ma non di natura fisica. Penso al periodo universitario perché laurearsi con una tesi su Julius Evola in una università presidiata da Autonomia Operaia era una bella scommessa. I veri problemi li ho avuti a livello di libertà di espressione: porte che si chiudono, esclusioni, pregiudizi…”.
Tra i numerosi saggi dati alle stampe, ha pubblicato “La sconfitta delle idee”, la “Cultura della destra”, “I vinti”, “Rovesciare il ‘68”, “Dio, Patria e Famiglia”, “Elogio della tradizione”, “La rivoluzione conservatrice in Italia”. Quasi un programma di governo, no?
“Un programma di pensiero. In realtà può essere anche un riferimento per chi governa. Lo pensai quando, per la prima volta, la destra si affacciò al Governo (1994). Ho maturato sufficiente esperienza per dire che la cultura e la politica difficilmente si incontrano”.
Le hanno mai proposto di fare il ministro o il sottosegretario di Stato?
“Non ho mai voluto candidarmi, ho rifiutato ogni coinvolgimento, sanno la mia refrattarietà a incarichi pubblici. E dopo l’esperienza avuta in Rai, che considero da non ripetere, preferisco occuparmi d’altro”.
Il saggio che presenterà a Riva del Garda (venerdì 20 gennaio, ore 18.30, Grand Hotel Liberty) punta la penna su uno stato d’animo che pare essere collettivo: nelle quattro stagioni della vita (bambino, ragazzo, adulto, anziano) siamo – titolo del saggio – “Scontenti”. Questo stato d’animo quanto è diffuso, secondo lei?
“Credo sia lo stato d’animo prevalente nel nostro Paese e vorrei quasi dire in Occidente. Naturalmente sono diverse le forme della scontentezza che, alle volte, sono rivolte verso sé stessi, altre verso il mondo. Però credo sia un sentimento prevalente che serpeggia, anche se qualcuno lo dissimula e qualcun altro invece lo ostenta. Non si ha l’esatta percezione del fenomeno, e della sua reale vastità”.
Citando Nietzsche e il suo “Così parlò Zaratustra” scrive che “la felicità vive di imboscate, arriva a nostra insaputa” e, pertanto, “è vano cercarla”. Perché tanto pessimismo?
“È un’affermazione mia, non voglio attribuirla a Zarathustra. Intendevo dire che non si può programmare o razionalizzare la felicità. Arriva all’improvviso quando meno te l’aspetti. È un dono, per questo è un’imboscata. Intendevo sottolineare che l’avvento della felicità è più legato alla fortuna, al destino che a un programma o una serie di possessi”.
Perché siamo scontenti pur vivendo meglio (almeno una buona parte) di un tempo?
“Perché abbiamo scoperchiato quel vaso di Pandora che sono i nostri desideri. Le nostre aspettative sono infinite mentre i mezzi, le nostre risorse, sono molto limitati. Quindi viviamo nella scontentezza pur nel pieno del benessere, nonostante la longevità e tutti i mezzi di cui disponiamo. Ma le forme dello scontento sono tante.
Questo male oscuro, questo disagio del vivere, che si accompagna alla depressione (“Il male oscuro” di Giuseppe Berto) potrebbe, scrive, trasformarsi in protesta quando non in rancore. È inevitabile?
“È possibile e fors’anche probabile. Almeno lo è diventato nel corso degli anni. Stiamo assistendo al passaggio dalla scontentezza privata al pubblico malcontento. Questo passaggio ha dato vita a movimenti populisti, forze di opposizione, a una grande ondata di disaffezione e di protesta nei confronti del potere. Non solo contro il potere politico ma anche consumistico, economico, culturale. Credo che il fenomeno sia ancora in corso”.
Lei scrive che “per molto tempo il potere ha puntato sulla rassegnazione”. E adesso che governa la destra?
“Adesso che governa la destra è un esperimento interessante. Il partito che ha portato la Meloni al governo del Paese è il partito degli scontenti. Vedere se riuscirà ad accontentare gli scontenti è una bella scommessa. Anche perché la Meloni deve fare i conti con i Poteri che le consentono di restare al Governo. Come ben sappiamo, per governare occorre comunque accettare alcune linee guida occidentali, europee, economiche che la Meloni sta peraltro rispettando, creando qualche tensione con chi si aspettava un Governo completamente controcorrente.
Quando lei ha scritto “Scontenti”, edito da Marsilio, in Italia si stava preparando il successo elettorale della destra. Oggi, che governa Giorgia Meloni, almeno lei è soddisfatto?
“Io sospendo il giudizio, nel senso che in questa prima fase è prematuro dare giudizi. Lo si può fare solo se il Governo fa cose grandiose o disastri tremendi. Mi pare che finora la Meloni non abbia fatto né le une né gli altri”.
I primi atti del governo Meloni le sono piaciuti?
“Alcuni sì, altri un po’ meno. Alcune linee non le condivido anche se ne rispetto la coerenza, altre le sostengo. Ma finora non ho visto nulla di particolarmente significativo che possa portare all’entusiasmo o al vituperio”.
A tale proposito, “la” o “il” presidente del Consiglio?
“Lo considero un quesito di scarso interesse. Continuerò a chiamarla “la” Meloni, con tutto il rispetto nei suoi confronti. Se vogliamo essere corretti fino in fondo, se ci si riferisce alla figura del presidente del consiglio è bene dire “il” presidente; se poi si dice Giorgia Meloni credo convenga dire “la” presidente Meloni”.
“Il” forse perché non voleva cedere al femminismo di sinistra?
“Mah, questioni di lana caprina”.
Come definirebbe la destra oggi: post fascista o radicalmente diversa da quello che è stato il retaggio del Ventennio?
“È una destra che cerca di diventare conservatrice. Ha rimosso in maniera radicale il confronto con il fascismo, non solo il giudizio negativo sul fascismo, ma preferisce la rimozione radicale ed è entrata nella sfera dei conservatori”.
Lei scrive che la “globalizzazione invade l’Occidente. L’Ovest non è più il mondo e i suoi modelli”. Perché si è arrivati a questo che lei chiama “girone di ritorno”?
“Perché il girone espansivo della globalizzazione coincideva con la Americanizzazione del mondo. Nel senso che il modello occidentale americano era esportato in tutto il Pianeta. Da qualche anno, questo modello è perdente o comunque più debole rispetto alla forza dei modelli asiatici: cinese, giapponese, coreano, indiano. Oggi la globalizzazione serve più a mettere in circolazione nel mondo prodotti e modelli dell’est asiatico piuttosto che espandere l’influenza occidentale al resto del mondo”
Dal mondialismo stiamo tornando ai nazionalismi, dai diritti umani ai diritti individuali. Lei gongola?
“Credo si debba accettare un’umanità che proceda per compensazioni. Detesto e sono impaurito dal senso unico della storia. Quando la storia cammina verso la globalizzazione è naturale e anche auspicabile che vi sia una riscoperta delle identità locali e delle realtà più particolari. Un mondo bilanciato tra spinte globali e spinte locali è, a mio avviso, un mondo a misura d’uomo”.
Lei è credente?
“Si, ma in modo abbastanza incoerente”.
Tra papa Ratzinger e papa Bergoglio lei stava con il primo, immaginiamo: “Pater noster” o “Padre nostro”?
“Stavo decisamente con il primo. Il problema, che riconosco da osservatore, è che il tentativo di Ratzinger di risvegliare la cristianità in Occidente non ha dato segnali di risveglio. Dall’altra parte, il tentativo di spalmare il cristianesimo nella nostra epoca e di renderlo una specie di catechismo umanitario da parte di Bergoglio si sta ugualmente inabissando. Anche se vedo in lui, da qualche tempo, significativi segnali di ripensamento di questa linea”.
Nel 2020, alla vigilia del VII centenario dalla morte, lei ha pubblicato “Dante nostro padre”. Quel “nostro”, inteso di tutti gli italiani o, come ha dichiarato qualche giorno fa il ministro della cultura Sangiuliano, padre della destra?
“È il padre della lingua e della civiltà italiana. Il tema specifico che ha sollevato, credo, con spirito provocatorio, il ministro Sangiuliano, entra in un altro ordine di argomentazioni. E qui non mi sono pronunciato”.
Ha fatto bene o sarebbe stato meglio “un bel tacer”?
“Ha fatto bene a sollevare il tema di dare radici nobili alle culture politiche e di cercare un padre veramente nobile alla provenienza del pensiero. Ciò non vuol dire che si debba costringere Dante nelle categorie del nostro tempo e anche nelle vicende dei nostri giorni. Ma non condanniamo Sangiuliano in un girone dell’inferno”.