Trent’anni fa, col neonato primo governo di centrodestra, il ministro delle poste Pinuccio Tatarella, vicepresidente del consiglio, emise un francobollo per ricordare i cinquant’anni dalla morte, dall’assassinio, di Giovanni Gentile. Trent’anni dopo, un analogo francobollo del governo di destra-centro viene emesso per ricordare il filosofo ucciso. Ricordo meritorio, come la mostra dedicata a Gentile, pur dal titolo anodino, blandamente evocativo (Scendere per strada). Ma dopo trent’anni siamo ancora al francobollo, c’è l’affrancatura ma la lettera per restituire Gentile al pensiero, alla cultura e alla storia d’Italia non è stata ancora concepita e imbucata. Anzi, nonostante il ripensamento di Gentile da parte di tanti importanti filosofi italiani – da Del Noce a Severino, da Sasso a de Giovanni, da Natoli a Cacciari e tanti altri – un grande, losco tabù accompagna ancora quel filosofo, quel pensiero e soprattutto la storia del suo assassinio e dei suoi mandanti, di cui ci siamo occupati di recente nel silenzio generale. Eppure Gentile fu l’ultimo filosofo a pensare l’Italia e fu il più grande filosofo teoretico italiano del Novecento. Non capiremmo mezza filosofia italiana, incluso l’italomarxismo, Gramsci, mezza cultura fascista e mezza cultura antifascista senza il suo pensiero e la sua opera. L’interventismo della cultura, cominciato agli inizi del Novecento, ha un crocevia ineludibile in Gentile e nel suo idealismo militante. Per non dire della scuola, dell’enciclopedia italiana, degli istituti di cultura… Nessun altro ministro della Pubblica Istruzione, nemmeno i grandi De Sanctis e Croce, o Aldo Moro, lasciarono l’impronta che lasciò lui, e così a lungo.
Oggi vorrei ricordare quel 15 aprile di 80 anni fa con gli occhi e la mente del suo principale amico e rivale; e poi ricordare altri 15 aprile più recenti.
Nel suo diario, alla data del 17 aprile del ‘44, Benedetto Croce ricorda come viene a sapere a Napoli dell’assassinio di Gentile dal suo fidato Giuseppe Brindisi; la notizia fu poi confermata da Radio Londra. Croce ricorda la quasi trentennale collaborazione con lui, definendosi amico sincero, affettuoso e leale. “Ruppi la mia relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo”. “Ma pur sentendo irreparabile la rottura tra noi”, presagendo il crollo del fascismo, Croce pensava che “mi sarebbe spettato, per il ricordo della giovanile amicizia, provvedere alla sua incolumità personale e a rendergli tollerabile la vita col richiamarlo agli studi da lui disertati”. Non fece in tempo a difenderlo, e probabilmente anche per questo fu emessa in fretta dall’Intellettuale Collettivo la sentenza di morte del filosofo, prima che Croce o altri impedissero di eliminare il filosofo con cui si era compromessa mezza cultura passata poi al comunismo e all’antifascismo. Una presa di posizione di Croce avrebbe avuto un suo grande peso, anche sugli Alleati. Croce ricordava pure di aver dissentito dalla pubblica censura che il ministro badogliano della scuola, Leonardo Severi, aveva rivolto a Gentile, estromesso dalla guida della Scuola Normale di Pisa. Quel Severi che era stato fascista e capo di gabinetto di Gentile al ministero (e in precedenza vice capo di gabinetto di Croce); era stato collaboratore nella riforma gentiliana della scuola e ora diventava l’epuratore del “suo” ministro e dei fascisti dalla scuola. Croce poi nascondeva la sua commozione per l’uccisione di Gentile dietro le lacrime di sua moglie: “Radio Londra che l’ha definita “giustizia” e ha aggiunto severi commenti sull’uomo, ha fatto scoppiare in pianto Adelina che l’ascoltava e che ricordava lui…bonario uomo ed amico, da noi accolto a festa quando veniva a Napoli nostro ospite”.
Il 15 aprile di quarant’anni fa, l’Editore Giovanni Volpe, figlio dello storico Gioacchino Volpe, collaboratore assiduo di Gentile, chiudeva un convegno della Fondazione dedicata a suo padre, accasciandosi sul podio; moriva sul campo, ricordando Gentile, mentre era impegnato nella sua attività di interventista della cultura. Volpe era un ingegnere-scrittore, editore cattolico e nazional-conservatore, pubblicava libri e riviste controcorrente; animava cenacoli di cultura, mettendo insieme le varie anime pensanti della destra culturale (mal sopportato dalla destra politica).
Il 15 aprile di quindici anni fa si spegneva a Roma Giano Accame. Scrittore, giornalista, spirito libero e curioso, aperto agli incroci pericolosi e ai dialoghi con la sinistra sociale e nazionale, i cattolici di Cl; fascista e pacciardiano, fautore del socialismo tricolore, rappresentò con Beppe Niccolai e pochi altri l’anima eretica e dialogante della destra sociale e nazional-popolare. Nonostante i suoi percorsi eretici e la sua refrattarietà a certi strascichi ottusi di fascismo-regime, Giano Accame volle farsi seppellire con la camicia nera che aveva indossato in extremis da ragazzo (il ’45 aveva appena 17 anni). Voleva chiudere il cerchio della sua vita come l’aveva cominciata allora. Qualche anno dopo, nel 2017, un’insospettabile firma del giornalismo liberal-conservatore, Franco Cangini, chiese di essere seppellito – anche lui – con la camicia nera, anche se ai tempi del fascismo era solo un bambino. A lui e al suo sorprendente gesto finale, volle dedicare un libro suo figlio Andrea Cangini, giornalista come suo padre e poi parlamentare. E in quel libro, intitolato La camicia nera di mio padre (edito da Minerva), gli rendemmo onore in tanti: tra gli autori comparivano i ricordi di esponenti di sinistra come Augusto Barbera, già esponente del Pci e del Pd e attuale presidente della Corte Costituzionale, Luciano Violante e Walter Veltroni, Claudio Martelli e molti altri che non la pensavano come lui.
Perché sull’onda del 15 aprile ho messo insieme “un fascio” di ricordi così? Non solo per ricordare giganti e persone per bene, che ho conosciuto e frequentato (Gentile ho conosciuto bene solo nella sua opera e ho avuto l’onore di aver avuto dagli eredi Gentile la cura dei suoi scritti in Pensare l’Italia) ma anche per ricordarli nonostante il loro versante fosse quello “sbagliato”. Ma sbagliata non fu la loro vita, i loro scritti, la loro passione civile e le tracce che lasciarono; il loro fascismo, reale o ideale, storico o virtuale, fu scontato sulla propria pelle e non su quella altrui. E vorrei far notare che tutto questo fino a pochi anni fa era opinione largamente condivisa, anche a sinistra, al punto che era perfino possibile che esponenti di primo piano di sinistra ricordassero un uomo in camicia nera e scrivessero un ricordo di lui in un libro dal titolo così inequivocabile. Di loro è giusto, è umano, è civile, un ricordo Gentile.
La Verità – 14 aprile 2024