Lo diceva già il proverbio antico: “Nemo propheta in patria”: così Nemo, cantante non binario, sui generis, è stato eletto profeta canoro della non-patria europea. Nemo, che in latino vuol dire Nessuno, è svizzero e applica la neutralità anche al genere sessuale. Non ce ne saremmo mai occupati della notizia in sé, anche se ieri continuavano sulle prime pagine dei nostri più rispettabili giornali, bavose apologie del cantante “non binario” e del mondo che cambia in quella direzione. L’Eurovision ha riconosciuto, premiato, fatto trionfare un cantante la cui speciale virtù è quella di essere un mutante in bilico, che non si vuol riconoscere nel sesso nativo e nemmeno in quello adottivo. Hai qualcosa contro chi si definisce non binario? Figuriamoci, non sono mica un passaggio a livello, non mi occupo di chi attraversa i binari. Non ho il minimo interesse a spiare la vita altrui dal buco della serratura o da altri orifizi. Il problema non è la sua vita, come lui si sente, cosa vorrebbe essere, un camaleonte o una zucchina, fatti suoi e dei suoi intimi. Il problema non è nemmeno l’esibizione in mondovisione, con messaggio annesso, del suo sesso variabile, come il tasso dei mutui; ma il riconoscimento pubblico, l’attestazione internazionale, il premio alla sua mobilità sessuale, alla sua estemporaneità di genere. Come se fosse un precursore, un pioniere e un modello, esempio per tutti. La notizia su cui si sono concentrati tutti, al pari della motivazione del successo, non era la sua canzone, la sua esibizione, ma il suo status non binario, di umanità in transito, personale viaggiante dal maschile al femminile verso l’ignoto, senza fissa dimora.
Cambia qualcosa nella nostra vita dopo quella pagliacciata in eurovisione e quel glorioso coming out salutato come un evento epocale, tale da scomodare cieli e inferi? Ma no, assolutamente niente, si allarga semmai il disgusto, la nausea, il senso di estraneità verso tutto ciò che proviene dalla sfera pubblica, anche nell’ambito dell’intrattenimento e della ricreazione. Appena c’è qualcosa che evoca l’Europa, una guerra, una tragedia, un accidente o anche solo un festival, si allunga un’ombra di squallore. Amedeo Minghi da cantante s’indigna, e lo capisco, ha ragione; il generale Vannacci da militare vede una conferma che il mondo va a contrario, e capisco pure lui, ha ragione. Ma la cosa va ben oltre un banalissimo festival e un fatto intimo elevato a Ragione Universale.
A me quello che sconforta è che non c’è scampo, se vuoi volgere lo sguardo altrove, e occuparti d’altro, passi da un Nemo a un altro, ovvero da una nullità a un’altra, da un trasformista all’altro; sai che la Nullità mutante è andata al potere, va sul podio, vince i premi nella musica, come nel cinema, nell’arte, nella letteratura. È il trionfo del Nessunismo, cioè la negazione dell’identità come merito, meta e compito per tutti. Nemo non è un singolo ma un fenotipo, un’ideologia. Dicendo di chiamarsi Nessuno l’astuto Ulisse trovò un espediente per sfuggire a Polifemo. Qui invece la scelta non è di sfuggire alla furia dei ciclopi ma sfuggire a se stessi, alla propria natura, alla propria identità nel nome dei propri desideri, “perché così mi sento”.
Dai su, direte voi, cosa vuoi che sia una pagliacciata canora, un fenomeno da baraccone; lascia il circo, pensa alle cose serie. Ma è lì che sorgono i problemi, anzi è lì che si amplificano e diventano sistema, paradigma universale. Perché quando passi dallo spettacolo alla vita seria, alla politica, alle relazioni sociali, all’impegno civile il quadro che si prospetta è la continuazione del Medesimo, per dirla con Alain de Benoist; ossia è la continuazione del circo, dell’Eurovision in altre forme, è sempre la stessa roba, la stessa ideologia dominante. L’eurovision coincide con la visione dell’Europa. Nemo per tutti, tutti per Nemo.
Insomma, per dirla in modo più chiaro, il problema non è Nemo che vince un festival, ma è Nemo che guida l’Unione europea, ne è il parametro, lo spread e l’unità di misura. Quel Nessuno rappresenta un popolo ridotto a moltiplicarsi in tanti Nessuno, privi di identità; la cosa che oggi unisce l’Europa è il ripudio dell’identità comune e personale, individuale e generale, famigliare e di civiltà. La canzone ne è solo la sintesi fatua e simbolica a uso pop.
La perdita dell’identità, decantata come un’emancipazione, una liberazione, una presa di coscienza, un passaggio – per stare alle parole della canzone di Nemo – dall’inferno al paradiso, ha una serie di effetti nefasti che ricadono a cascata sulla vita concreta degli europei. L’identità di genere è solo il primo livello dell’identità, quello più elementare, più evidente, più naturale: poi c’è l’identità civica, l’identità culturale, l’identità popolare, l’identità derivata dalla storia e dalla tradizione, l’identità di civiltà.
Il rifiuto dell’identità o Euronemia produce danni a più livelli. Impedisce di riconoscere e accettare chi siamo davvero, la realtà nostra e degli altri, i corpi, i limiti, i confini, le eredità. Rende più vulnerabili e soccombenti rispetto a chi invece preserva e difende la propria identità, come per esempio gli islamici. E riduce i corpi a gelatine, le persone a tatuaggi, i pensieri a capricci e celebra storie intime come se fossero storie universali, tappe gloriose nel quadro dell’evoluzione della specie.
Sappiamo che in assenza di riferimenti alti, superiori e ulteriori, alla fine chi rappresenta, incarna ed esprime l’Europa e la sua icona è quello che ci giunge dagli eventi e dai personaggi pop, dai racconti di massa imbastiti sul terreno dello spettacolo e dell’intrattenimento. Di Nemo all’Eurovision chi se ne frega; ma deprime la visione dell’Europa ridotta a celebrare, non solo nei festival, il Nemo di turno e l’euronemia. Farà una brutta fine questa specie d’Europa, investita sui binari incustoditi dal treno della realtà.