Rieccola, la Dc, un pezzo della vita nostra, di noi seniores. Torna per i suoi ottant’anni, ma a dir la verità, già quarant’anni fa ne dimostrava ottanta. O quantomeno così la percepivamo noi italiani, tanto ci pareva eterna, inossidabile, antica. Andreotti ci sembrava un reperto della preistoria già quando aveva solo sessant’anni; si sprecavano ironie sulla sua, sulla loro longevità politica. Essendo poi per indole e ragione sociale moderati, sobri e morigerati, i democristiani sembravano vecchi anche da giovani. Ma quella percepita antichità della Democrazia Cristiana indicava anche un’altra cosa: aderiva così profondamente alle fibre del nostro paese da essere considerata un elemento naturale della nostra vita pubblica e privata. Avevamo per così dire somatizzato la Dc o la Dc aveva somatizzato l’Italia, pur senza alcuna enfasi di italianità e di identità nazionale. Apparve quasi l’autobiografia degli italiani, come si disse pure del fascismo: il fascismo-Stato pretese di essere la versione paterna mentre la Dc-Stato fu la versione materna.
L’occasione per celebrare gli ottant’anni della sua nascita è un convegno oggi a Roma, introdotto da Ortensio Zecchino, moderato da Paolo Mieli, con alcuni storici, che dà il via a una serie di incontri e seminari triennali sulla storia della Dc nella storia d’Italia: Anima e corpo della Dc.
Cosa è stata la Dc per l’Italia in relazione al suo tempo? Fu in primo luogo il più grande ammortizzatore di conflitti e guerre civili, di tensioni sociali, di passioni ideali. Venivamo da un’Italia divisa in due e la Dc fu la tregua sine die, il disarmo e l’oblio dell’Italia venuta dal passato, dal Risorgimento, dalle Guerre, dal fascismo e dall’antifascismo. Riportò l’Italia dalla storia a casa, anzi non pensò all’Italia ma si prese cura degli italiani e li riportò in famiglia, alla vita di ogni giorno. Quando si spaccia il voto alle donne come una vittoria progressista si dimentica che furono le donne a far vincere la Dc contro il fronte progressista. Votarono il partito della Madonna e della famiglia, mica l’emancipazione femminista.
La Dc non pretese di raddrizzare le gambe storte degli italiani, come i rivoluzionari e i riformatori; non ebbe pretese correttive, etiche, non sognava l’uomo nuovo; assecondò il suo popolo e la sua indole, nel nome della libertà, ma di fatto della comodità, del quieto vivere, mettendo ciascuno a proprio agio. Fu indulgente la Dc, mai punitiva, mai vendicativa e di fronte a ogni massimalismo rispondeva col minimalismo rassicurante; gli estremisti li avversava in campagna elettorale, poi tentava di ammansirli e assorbirli. Se la destra coltivava la fiamma del passato e la sinistra si crogiolava nel sol dell’avvenire, lo scudo crociato si curava del presente. Era la realtà concreta, senza cedere al neo-realismo.
Se la destra si appellava alla nazione e la sinistra si richiamava al socialismo sovietico, la Dc si piazzò a Occidente, tra la Chiesa e gli Stati Uniti, sotto la protezione delle vecchie zie. Non promosse crociate ma dighe per arginare il comunismo o il nazionalismo; era il partito delle piccole, solide certezze, rispetto alle avventure temerarie e ai focosi ideali. Il suo modello sociale era la versione soft dello statalismo fascista e socialista: un compromesso tra pubblico e privato, tra libertà e assistenza, mercato e stato. Alle forti convinzioni oppose le pratiche convenienze; trasferì l’invocazione dei santi nel campo delle raccomandazioni. Allevò clientele e spostò le aspettative sul piano personale e famigliare.
Se l’Italia fu quella lungo il mezzo secolo democristiano, i meriti e le colpe della Dc furono sempre indiretti, mediati; fu sempre concausa, sia di sviluppo che di decadenza. Ovvero, non si può attribuire direttamente alla Dc il boom dell’Italia dal dopoguerra al miracolo economico; la Dc non ostacolò questo processo che avvenne più per dinamismo sociale, voglia e capacità di migliorare degli italiani nella loro vita; per certi versi lo assecondò, quantomeno garantendo un clima e sopendo le forti contrapposizioni. Allo stesso modo non si può attribuire direttamente alla Dc la decadenza della società, il caos, la perdita di valori, la scristianizzazione galoppante, la crisi di identità, appartenenza e cultura. La Dc non arginò queste derive, non si oppose, non pretese nemmeno di orientare culturalmente o ideologicamente gli italiani. Ma sarebbe ingeneroso attribuire il declino di una civiltà alla Dc, esattamente come sarebbe ingiusto attribuire alla Dc il merito dello sviluppo.
Dopo De Gasperi non ebbe statisti, i suoi “cavalli di razza” furono politici navigati, a volte cinici, come Andreotti, a volte fumosi anche se di maggior respiro, come Moro. Forse Fanfani ebbe l’ambizione di essere uno statista e fare politica oltre la gestione dell’esistente. La duttilità della Dc, la pluralità di sensibilità e tendenze fu la sua forza e la ragione della sua durata.
Cominciò a declinare quando De Mita pretese di modificare l’indole della Dc, prima abbracciando l’Arco costituzionale con cui perse l’egemonia, poi cercando un’intesa col Pci e le forze laiche opponendosi al fronte avverso che univa a sua volta una parte della Dc di sempre con l’emergente leadership di Craxi (il mitico CAF). E sullo sfondo le ombre del dopo-terremoto (Irpiniagate).
Il primo crollo elettorale fu proprio con lui nel 1983, a cui seguì l’anno dopo il sorpasso dei comunisti alle elezioni europee, freschi orfani di Berlinguer. Poi la caduta del Muro, Mani Pulite, l’incapacità di rifondarsi e di accettare le conseguenze del bipolarismo; vano fu il tentativo in extremis di tornare partito popolare, senza l’ispirazione sturziana, in un mondo ormai mutato. Infine la disseminazione dei democristiani nei due schieramenti e il formarsi di alcuni partiti coriandolo. La Dc non morì del tutto, ma non si ricompose più per intero. Restò un flebile rimpianto, fino a che la tirannia del presente cancellò la sua impronta. Quel presente che era stata l’àncora di salvezza democristiana dalla storia, dai nostalgismi e dai progressismi, si ritorse contro di lei e la tumulò nel passato. L’Italia ci mise una croce sopra, non in segno di voto o di memoria dello scudo crociato; ma per seppellirla insieme all’Italia di ieri con le sue vecchie mappe e le sue vecchie mamme.
La Verità – 19 giugno 2024