Tunisia: il processo autoritario passa per la libertà di espressione

Il presidente tunisino Kaïs Saïed sta procedendo speditamente nel percorso autoritario. Dopo il referendum costituzionale che ha indebolito il potere parlamentare a favore del presidente e delle autorità politiche locali, comunque sempre totalmente subordinate, venerdì 16 settembre il Capo dello Stato ha emanato un decreto legge che ufficialmente mirerà a combattere i crimini informatici, ma in realtà rappresenterà una opprimente minaccia per ogni libertà di espressione e di informazione. Amna Guellali, direttrice regionale di Amnesty International a Tunisi, ha affermato che nemmeno sotto il regime dittatoriale di Zine El-Abidine Ben Ali si era mai giunti a dover subire una normativa così limitante della libertà di espressione come nel Testo appena pubblicato.

Il decreto legge, così come strutturato, ha forti caratteristiche liberticide. Infatti, punisce con cinque anni di reclusione e con la multa di 50mila dinari – circa 15600 euro – chiunque “utilizza deliberatamente reti di comunicazione e sistemi informativi per produrre, promuovere, pubblicare, o inviare informazioni false o false voci”. Inoltre, se la diffamazione è diretta a un funzionario dello Stato, la pena arriva a dieci anni di reclusione.

Dopo la pseudo Primavera araba, scaturita nel 2011 contro il presidente Ben Ali, importanti azioni si erano sviluppate per la trasparenza e la libertà di espressione. Ma, come ha riportato Larbi Chouikha, esperto di comunicazione e docente universitario, con la nuova normativa è tutto il sistema social che viene preso di mira e controllato. Dopotutto, gli effetti del decreto legge riguarderanno non solo la categoria dei giornalisti, ma anche qualsiasi cittadino che pubblica o diffonde informazioni sui social network ritenute dall’ente controllore – il Governo – false o diffamatorie. Chouikha ha sostenuto che all’epoca, insieme a intellettuali e liberali, si erano impegnati per ottenere garanzie che se la diffamazione veniva provata dai giudici, la sanzione prevista era solo pecuniaria e non penale. Ricordo che in Tunisia – su una popolazione di 12 milioni – 7,7 milioni di persone si collegano abitualmente ai social network. Pertanto, questi strumenti svolgono un ruolo di coesione e condivisone importante. Facebook – in fin dei conti – ha avuto un ruolo rilevante per la diffusione delle informazioni, proprio durante la rivoluzione del 2011.

Ma l’Unione nazionale dei giornalisti tunisini, tramite la voce del presidente del sindacato, Mehdi Jelassi, sta reagendo a questo decreto legge e ha rilasciato una dichiarazione con la richiesta, rivolta a Saïed, di ritiralo. L’appello fa riferimento alla violazione dell’articolo 55 della Costituzione che garantisce la libertà di espressione. La libertà di espressione, rappresentata dal citato articolo 55, è ancora presente nella Carta che, rammento, è stata predisposta proprio su volontà e coordinamento presidenziale. Essa fu approvata con il discusso referendum del 25 luglio, che ha visto un 94,6 per cento di voti a favore, ma con un tasso di astensionismo del 69,5 per cento.

A dicembre sono programmate le elezioni legislative. Viste le modalità di controllo chiaramente manifestate dal Governo, è chiaro che le autorità cercheranno di imbavagliare i media e soffocare lo spazio virtuale. Inoltre, alcuni mesi fa era stata emanata una circolare che obbligava tutti i rappresentanti dello Stato a ottenere il preventivo nulla osta del capo del Governo prima di farsi intervistare da un giornalista. La Tunisia, per la cronaca, sta attraversando un periodo di crisi globale, con problemi socio-economici gravi, come la carenza di approvvigionamenti alimentari. I giornalisti hanno lamentato che in questa fase hanno enormi difficoltà a contattare gli interlocutori ufficiali per intervistarli sulle criticità in atto.

Il 6 settembre le squadre statali responsabili di combattere l’antiterrorismo e di reprimere la criminalità informatica hanno arrestato e detenuto per alcuni giorni l’attivista di sinistra, filo-palestinese, Ghassen Ben Khalifa e il direttore del quotidiano on line Inhiyez, dove l’attivista pubblica le sue opinioni. Gli arrestati sono stati accusati di utilizzare la piattaforma di Facebook per divulgare false informazioni. Su questa “linea” repressiva, il 18 settembre, la giornalista dell’emittente radiofonica Rtci, Sofiene Ben Nejma, ha subito maltrattamenti in una stazione di polizia mentre stava sporgendo denuncia per essere stata vittima di un furto. Un testimone ha rivelato che le violenze a carico della giornalista si sono verificate a seguito di un suo tentativo di filmare, con il telefonino, i fatti. Proprio dai social si vedono delle immagini dove Sofiene Ben Nejma, mostra il viso tumefatto.

Di conseguenza, il ministero dell’Interno ha avviato un procedimento di confronto tra la Ben Nejma e gli agenti che l’hanno aggredita, i quali sono stati nel frattempo sospesi, in attesa di un approfondimento delle indagini tese ad appurare i fatti. Ma come scritto in un mio precedete articolo, il problema più grave è la mancanza di reazione, da parte dei cittadini tunisini, a qualsiasi azione oppressiva del Governo. Proprio la pubblicazione del liberticida decreto legge avrebbe dovuto creare dissensi e proteste. Ma si sa che per governare un popolo con autoritarismo bisogna incutere terrore, infondere incertezze, magari convincerlo di essere “malato cronico”, affamarlo e opprimerlo con “gabelle” varie ed economicamente non motivate. Soprattutto, renderlo non edotto o almeno non informato, cosa che fa parte di ogni disegno autoritario. Nell’Indice Rsf, sulla libertà di stampa, la Tunisia è al 94esimo posto e l’Italia al 58esimo su 180 Stati. Tunisia, Italia: una vicinanza non solo geografica.

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