“Donna, vita, libertà” è lo slogan di punta dell’attuale rivolta iraniana. Il motto, che sottolinea il fondamentale “ruolo di genere”, viene scandito in ogni piazza e in ogni università. Insomma, dove è possibile manifestare. Il messaggio raccoglie tre aspetti che sono stati soffocati, se non annichiliti, dal 1979. Ma che sono tornati in auge da oltre due mesi, cioè dall’uccisione della ragazza curda-iraniana di ventidue anni, Mahsa Amini. Una combinazione tra orgoglio di essere donna, fiducia nella vita e grande speranza di libertà. Allo stesso tempo, terminate le proteste, subentra la consapevolezza di essere considerate “moralmente trasgressive dal potere degli Ayatollah”. Così, la paura di subire arresti e violenze o di essere eliminate prende il posto dell’euforia per aver potuto esprimere, con un atteggiamento e un abbigliamento “inappropriato”, la totale dissonanza di una generazione dal Governo del Paese.
In Iran si sta celebrando una sfida multi-generazionale. Da una parte, c’è l’ossificato regime degli ayatollah: forte di una repressione senza limiti, ha ucciso in questi ultimi due mesi più di quattrocento persone, tra cui decine di bambini ed eseguito migliaia di arresti. Dall’altra troviamo una generazione di giovani e meno giovani iraniani i quali, spinti dal coraggio delle donne, stanno sostenendo una ribellione epocale.
Ma oggi quale è lo stato d’animo dei manifestanti? E le autorità possono fare marcia indietro? Di certo, la rivolta – nonostante le repressioni letali – non pare essere scalfita. Anzi, la sofferenza – denominatore comune da oltre venti anni ed espressione di una mutilazione della libertà – è solo accresciuta soprattutto per le donne (il hijab è il simbolo), unendosi a uno strazio fisico. Tuttavia sabato, il procuratore generale iraniano, Mohammad Jafar Montazeri, ha annunciato che la polizia morale sarà abolita e che la legge del 1983, sull’obbligo del velo, verrà discussa. Una legge, va ricordato, che fu imposta quattro anni dopo la rivoluzione islamica del 1979.
Nel frattempo, la libertà di esprimersi assume ogni giorno nuove e più spregiudicate connotazioni: nelle piazze, lungo le strade e sui social gli slogan sono sempre più radicali, come Morte a Khamenei, identificando così nella Repubblica islamica il bersaglio da colpire. Il punto di debolezza più eclatante del Regime, di fronte alla rabbia delle proteste, è la sua risposta: non ha un altro mezzo se non quello di reagire con il “bastone”. Il sito di informazione Iran Wire ha mostrato un video dove si vede la recente demolizione, eseguita dalle autorità, dell’abitazione di famiglia della atleta iraniana Elnaz Rekabi. La ragazza a ottobre, in Corea, aveva gareggiato senza lo hijab. Ecco così l’ennesima dimostrazione di una assenza d’orizzonte. Questa modalità di reazione definisce la miopia e la debolezza di chi “comanda”, praticata soprattutto contro il “pensiero dissidente” e contro la stampa, favorendo ogni tipo di paradossale oppressione. Sacrificando cinicamente qualunque speranza di libertà del popolo iraniano e credendo, in più, di assicurarsi la sopravvivenza politica, anche a livello internazionale. E ostentando una strategica, ma opaca, politica nucleare. Ma anche navigando nel pantano dell’accordo internazionale denominato Pacg, Piano d’azione congiunto globale. Una convenzione del 2015 naturalmente glissata dal Regime, al costo di pesanti sanzioni internazionali devastanti per la società iraniana.
Sotto l’ombra di una legittimità ottenuta con la cacciata del monarca Reza Palavi, nel 1979, si è spento quel principio religioso del velayat-e faqih, cioè il “Governo dei dotti”, rappresentato oggi da Ali Khamenei, inesorabilmente e fisiologicamente al tramonto. L’Iran, secondo Reporters sans frontières, è al 170esimo posto su 180, come libertà di stampa. E in questi ultimi due mesi ha conquistato la medaglia di bronzo come Stato al mondo per numero di giornalisti imprigionati. Superato solo da Cina e Myanmar (Birmania). Il regime fa ora affidamento solo sulla capacità repressiva dei bassidji, un corpo d’élite di guardie rivoluzionarie che con la repressione sostiene le vacillanti colonne della struttura socio-politico-economica iraniana. Inoltre, la “questione” Amini ha demolito anche quell’artificiale pluralismo tra “conservatori” e “riformatori”, che dava una parvenza di ipotetica alternativa, ovviamente solo sulla carta. Infatti, anche le elezioni del 2009, palesemente manovrate, erano solo una faccia della stessa medaglia. Come viene a volte ricordato, se le elezioni fossero utili al popolo, non verrebbero indette.
Ciononostante, la rivolta sembra non perdere energia. Parimenti. la repressione continua a essere crudele, nonostante i tentativi, più basati su annunci che non su atti partici, di ammorbidire le azioni repressive. Il bollettino delle vittime, nella sua difficile interpretazione, quotidianamente presenta il proprio conto. Donne, uomini, minori, pagano lo scotto per la libertà e per il futuro sia nelle grandi città che nei piccoli agglomerati. Ma l’Iran non è sotto stress solo internamente. Dopotutto, fronteggia da tempo una guerra ombra con Israele. A fine novembre, Davoud Jafari, colonnello delle guardie rivoluzionarie, è stato ucciso in Siria, nei pressi della capitale Damasco, da una bomba. Attentato, questo, attribuito dal Governo iraniano a Israele. L’eliminazione di Jafari segue l’uccisione di un altro elevato esponente delle Guardie rivoluzionarie, quella del generale Abolfazl Alijani, avvenuta il 23 agosto e sempre attribuita al Mossad. Lo Stato ebraico, in tale conflitto ombra, cerca di impedire alla Repubblica islamica di acquisire l’arma atomica e conseguentemente di indebolirne l’immagine nel Vicino Oriente. Colpi, questi, che stillano la capsula del regime.
L’operazione è complessa: l’animo delle iraniane e degli iraniani è forte, perché è in ballo il futuro di più di una generazione. Gli ayatollah, che accusano Washington e Gerusalemme di fomentare la ribellione, allo stesso tempo stanno giocando le loro carte. Ma l’alleato più utile e più forte per il messaggio “donna, vita, libertà” è sicuramente il fattore “tempo”. Fattore che il Regime sente sfuggire. Perciò cerca di prolungare le cose con i vari “ripensamenti”.
In Iran si sta celebrando una sfida multi-generazionale. Da una parte, c’è l’ossificato regime degli ayatollah: forte di una repressione senza limiti, ha ucciso in questi ultimi due mesi più di quattrocento persone, tra cui decine di bambini ed eseguito migliaia di arresti. Dall’altra troviamo una generazione di giovani e meno giovani iraniani i quali, spinti dal coraggio delle donne, stanno sostenendo una ribellione epocale.
Ma oggi quale è lo stato d’animo dei manifestanti? E le autorità possono fare marcia indietro? Di certo, la rivolta – nonostante le repressioni letali – non pare essere scalfita. Anzi, la sofferenza – denominatore comune da oltre venti anni ed espressione di una mutilazione della libertà – è solo accresciuta soprattutto per le donne (il hijab è il simbolo), unendosi a uno strazio fisico. Tuttavia sabato, il procuratore generale iraniano, Mohammad Jafar Montazeri, ha annunciato che la polizia morale sarà abolita e che la legge del 1983, sull’obbligo del velo, verrà discussa. Una legge, va ricordato, che fu imposta quattro anni dopo la rivoluzione islamica del 1979.
Nel frattempo, la libertà di esprimersi assume ogni giorno nuove e più spregiudicate connotazioni: nelle piazze, lungo le strade e sui social gli slogan sono sempre più radicali, come Morte a Khamenei, identificando così nella Repubblica islamica il bersaglio da colpire. Il punto di debolezza più eclatante del Regime, di fronte alla rabbia delle proteste, è la sua risposta: non ha un altro mezzo se non quello di reagire con il “bastone”. Il sito di informazione Iran Wire ha mostrato un video dove si vede la recente demolizione, eseguita dalle autorità, dell’abitazione di famiglia della atleta iraniana Elnaz Rekabi. La ragazza a ottobre, in Corea, aveva gareggiato senza lo hijab. Ecco così l’ennesima dimostrazione di una assenza d’orizzonte. Questa modalità di reazione definisce la miopia e la debolezza di chi “comanda”, praticata soprattutto contro il “pensiero dissidente” e contro la stampa, favorendo ogni tipo di paradossale oppressione. Sacrificando cinicamente qualunque speranza di libertà del popolo iraniano e credendo, in più, di assicurarsi la sopravvivenza politica, anche a livello internazionale. E ostentando una strategica, ma opaca, politica nucleare. Ma anche navigando nel pantano dell’accordo internazionale denominato Pacg, Piano d’azione congiunto globale. Una convenzione del 2015 naturalmente glissata dal Regime, al costo di pesanti sanzioni internazionali devastanti per la società iraniana.
Sotto l’ombra di una legittimità ottenuta con la cacciata del monarca Reza Palavi, nel 1979, si è spento quel principio religioso del velayat-e faqih, cioè il “Governo dei dotti”, rappresentato oggi da Ali Khamenei, inesorabilmente e fisiologicamente al tramonto. L’Iran, secondo Reporters sans frontières, è al 170esimo posto su 180, come libertà di stampa. E in questi ultimi due mesi ha conquistato la medaglia di bronzo come Stato al mondo per numero di giornalisti imprigionati. Superato solo da Cina e Myanmar (Birmania). Il regime fa ora affidamento solo sulla capacità repressiva dei bassidji, un corpo d’élite di guardie rivoluzionarie che con la repressione sostiene le vacillanti colonne della struttura socio-politico-economica iraniana. Inoltre, la “questione” Amini ha demolito anche quell’artificiale pluralismo tra “conservatori” e “riformatori”, che dava una parvenza di ipotetica alternativa, ovviamente solo sulla carta. Infatti, anche le elezioni del 2009, palesemente manovrate, erano solo una faccia della stessa medaglia. Come viene a volte ricordato, se le elezioni fossero utili al popolo, non verrebbero indette.
Ciononostante, la rivolta sembra non perdere energia. Parimenti. la repressione continua a essere crudele, nonostante i tentativi, più basati su annunci che non su atti partici, di ammorbidire le azioni repressive. Il bollettino delle vittime, nella sua difficile interpretazione, quotidianamente presenta il proprio conto. Donne, uomini, minori, pagano lo scotto per la libertà e per il futuro sia nelle grandi città che nei piccoli agglomerati. Ma l’Iran non è sotto stress solo internamente. Dopotutto, fronteggia da tempo una guerra ombra con Israele. A fine novembre, Davoud Jafari, colonnello delle guardie rivoluzionarie, è stato ucciso in Siria, nei pressi della capitale Damasco, da una bomba. Attentato, questo, attribuito dal Governo iraniano a Israele. L’eliminazione di Jafari segue l’uccisione di un altro elevato esponente delle Guardie rivoluzionarie, quella del generale Abolfazl Alijani, avvenuta il 23 agosto e sempre attribuita al Mossad. Lo Stato ebraico, in tale conflitto ombra, cerca di impedire alla Repubblica islamica di acquisire l’arma atomica e conseguentemente di indebolirne l’immagine nel Vicino Oriente. Colpi, questi, che stillano la capsula del regime.
L’operazione è complessa: l’animo delle iraniane e degli iraniani è forte, perché è in ballo il futuro di più di una generazione. Gli ayatollah, che accusano Washington e Gerusalemme di fomentare la ribellione, allo stesso tempo stanno giocando le loro carte. Ma l’alleato più utile e più forte per il messaggio “donna, vita, libertà” è sicuramente il fattore “tempo”. Fattore che il Regime sente sfuggire. Perciò cerca di prolungare le cose con i vari “ripensamenti”.
La forza di queste donne è degna del più profondo, grande, meritato rispetto.
“Donna, vita, libertà”