Queste pagine sono dedicate a coloro che ancora amano l’Italia. A coloro che uniscono a un ideale di nazione la consapevolezza di appartenere a una straordinaria civiltà millenaria, che ha sommato esperienze e culture diverse.
Esperienze e culture che hanno ereditato e sono state espressione nei secoli di storie uniche, che chiedono oggi di superare i limiti di egoismi individuali e politici per fare finalmente dell’Italia una vera protagonista del prossimo domani.
Perché un’Italia costruita sulle ambiguità del passato, e che non riesce a riscrivere una storia condivisa, non potrà che continuare a vivere nell’ambiguità del presente, costretta a fare i conti con i fantasmi di un’idea di nazione mai compiuta.
Nota dell’Autore
«L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, | ancora truffe al forestiero, si presenti come vuole. | Onestà tedesca ovunque cercherai invano, | c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; | ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, | e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé.»
Johann Wolfgang von Goethe
Vi sono delle frasi che spesso si adattano meglio di altre a sintetizzare un momento o una storia. Potremmo ricorrere a eleganti aforismi di cui la letteratura politica è ricca, o potremmo riferirci a osservatori stranieri che a loro modo hanno descritto nella prosa non comuni meraviglie o disarmanti prese d’atto dovute a un crollo di aspettative riposte in un’idea di Italia quale nazione. Certo Johann Wolfgang von Goethe non fu un gran dispensatore di elogi verso un’Italia quale possibile soggetto politico, pur godendone delle bellezze da essa offerte al viaggiatore europeo del “Grand Tour”. Ma potremmo richiamare, ancor prima del grande scrittore di Francoforte sul Meno anche il sempreverde, per quanto controverso, pensiero del conte Klemens von Metternich, manifestato nella corrispondenza con il conte Dietrichstein del 2 agosto 1847, per il quale l’Italia era da considerarsi niente di più di «un’espressione geografica», una qualificazione che poteva riguardare una lingua comune, ma che non aveva quel valore politico che i rivoluzionari cercavano di attribuirle.
«Un’espressione geografica» che, almeno sino al 1861, non era riuscita a replicare nella storia neanche esperienze politiche altrui. Esperienze, queste ultime, che hanno voluto o per interesse dinastico o per un impeto di romantico affetto per ciò che si riteneva apprezzabilmente italico nelle lettere come nelle arti, definire e presentare quanto meno l’Italia come uno spazio oltre che culturale, anche politico. Potremmo anche chiederci, però, una volta raggiunta l’unità nazionale, in quale angolo abbiamo riposto un patrimonio di conoscenze, o di intimo senso di appartenenza che, al di là della cultura aristocratica del passato, abbiamo progressivamente disperso in 160 anni di vita nazionale. O, ancora, in uno sforzo di umile comparazione, porci l’interrogativo di cosa non ha impedito a nazioni come la Francia di definirsi come Stato nei secoli. O alla Gran Bretagna, se non alla Germania qualche secolo dopo, di superare l’idea di rappresentare un luogo geografico e trasformarsi, nel tempo, la prima in Stato se non in una realtà imperiale mutuando quella dell’impero romano, e la seconda – superando i principati – in un disegno pantedesco coronato nel successo del pensiero di Federico II di Prussia, il Grande, e realizzato da Otto von Bismarck. Otterremmo sicuramente delle risposte che non ci allevierebbero il senso dello smarrimento dell’oggi nel ritenerci eredi, non così riconoscenti, di un Risorgimento per pochi.
L’Italia, insomma, fu un prodotto di un processo dall’alto. L’idea di una nazione Italia fu una scommessa per chi la promosse: per l’intellettualità tardoromantica borghese e liberale piemontese, per coloro che vi si accodarono e per chi vi scommise per una leadership, le potenze europee e, tra queste, soprattutto il Regno Unito per ragioni più geopolitiche che non per filantropismo verso le popolazioni italiche. L’Italia di Cavour, di Mazzini, passando per altre figure che hanno cristallizzato la storia dell’Italia risorgimentale se non, ancor prima, le illusioni o fantasie di un Dante o Petrarca o di un Guicciardini, non ha seguito un percorso storico come gli Stati Uniti d’America dove la Nazione divenne Patria per scelta condivisa dei coloni che misero da parte le relative nazionalità d’origine. L’Italia non disponeva di un substrato così forte come quello dei principati tedeschi che potevano contare su l’aver vissuto per secoli un’esperienza imperiale prima di giungere all’unità della Germania.
L’Italia del 1861, ma anche ciò che ne seguì, fu Patria per illusione e nazione per necessità per ricondurre a una ragione uno Stato unitario fatto di tante piccole patrie. Ci provò la Grande Guerra a tentare di mettere un punto su quanto in cantiere cercando di riunire, loro malgrado, provenienze e dialetti diversi nelle trincee, ma non fu sufficiente a realizzare in concreto una Nazione e a trasformare l’idea di una Patria comune da apologia in sincero convincimento. Ci avrebbe provato il fascismo nel creare una sorta di dignità di Nazione e, poi, di Patria, ma alla fine offrì solo nuovi argomenti per nuovi riti da regime e occasioni per ulteriori divisioni. Ci avrebbe riprovato la Resistenza in nome di un’idea comune di riscatto nazionale, ma gli animi erano troppo occupati a dividere il Paese tra buoni e cattivi, a colori o in bianco e nero, per giungere a un comune sentimento, a un comune senso di appartenenza.
Cicerone fu molto chiaro nel ricordare a Publio Cornelio Scipione, l’Africano, che
«Lo Stato è ciò che appartiene al Popolo. Ma non è Popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi in modo qualsiasi, ma una società organizzata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza di interessi. La causa prima che spinge gli uomini ad unirsi non è tanto il bisogno di reciproco aiuto …quanto piuttosto la naturale inclinazione a vivere insieme…»
L’idea di essere giunti a un capolinea della storia di un’identità costruita su basi fragili la si è ben vista proprio nella prima vera crisi affrontata dalla Repubblica: quella sanitaria del 2019-2021. Una crisi, questa volta, non dettata da ragioni economiche, seppur incubo dei nostri sogni poco tranquilli da decenni e con i quali abbiamo convissuto, e neanche politica, vista l’acquiescenza del popolo italiano verso ogni intemperanza dei partiti. Abbiamo vissuto e viviamo una crisi di sistema che neanche la parentesi terroristica degli anni Settanta riuscì a determinare, pur offrendosi quale alternativa al parlamentarismo consociativo, cercando di folgorare sulla via rivoluzionaria un proletariato poco propenso alla lotta. Una crisi di sistema – risultato, impensabile per i più – di un’emergenza sanitaria dal volto poco certo, ma sufficiente a ridurre un Paese nel fantasma di se stesso, alla stessa stregua di una dichiarazione di guerra, di un conflitto alle porte con l’impietosa processione degli egoismi di esperti di ogni rango, pronti a giocare una parte personale per sostenere il proprio dominus politico, o per non farsi sfuggire il proprio momento di trance da vanità cui si è aggiunta la recente crisi tra Russia e Ucraina.
Ecco, allora, che non bastano riforme possibili auspicate e mai andate in porto. Né sembrano essere sufficienti inchieste volte a risanare modelli di governance politica o amministrativa ancorati a interessi di potere o di potentati economici senza bandiera, o rivoluzioni generazionali costruite sull’odio verso l’esclusione non dalla partecipazione al futuro, ma solo dall’impossibilità di aver avuto la propria parte nella suddivisione della grande torta di Stato. Alla fine, mettendo da parte ogni salotto che decide di cosa e di come si deve parlarne e come indirizzare l’opinione pubblica – consapevole che ogni giornale, ogni palinsesto televisivo non sono altro che la rappresentazione di una casta che produce notizie – queste pagine vogliono porsi come riflessione non solo sull’idea che esista una nazione italiana, ma anche su quella che è la nuova barbarie moderna: quella rappresentata da uno Stato ostaggio di bande populiste e sovraniste. L’Italia, oggi, è probabilmente, il miglior esperimento di quel La défaite de la pensèe di Alain Finkielkraut che nelle sue pagine mette in guardia sul come il rischio di una deriva autocratica travestita da democrazia amministrata piuttosto che governata non sarebbe poi così lontano. Per Giovanni Sartori,
«Le cose che mi spaventano sono ormai parecchie: ma il livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato da una maggioranza dei nostri onorevoli mi spaventa più di tutto. Altro che bipartitismo compiuto. Qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti»,
L’idea che l’Italia possa presentarsi come esempio di democrazia matura a distanza di poco o più di un secolo e mezzo dall’inizio della sua esperienza come nazione, resta una mera utopia. Probabilmente, andare oltre il significato geografico sembra ancora una volta un’avventura per un popolo che nella paura cerca la solidarietà di chi lo aiuta, per poi dimenticarsi non solo degli altri, ma anche di se stesso. Emerge, così, una nuova seppur tardiva, versione di un’Italia lillipuziana che diventa vittima della sua misantropia e della mistificazione politica della sua identità. Un’Italia che per un ironico quanto sarcastico Jonathan Swift – noto per il suo “I viaggi di Gulliver” ma forse non abbastanza per far assurgere agli annali dei saggi del pensiero politico quella sua raccolta nota come “L’arte della menzogna politica” – sarebbe stata, se fosse stato oggi un contemporaneo, un buon esempio di come e in che misura una classe politica e un popolo senza bandiera hanno vissuto il Paese: la prima, ricorrendo alle arti della dissimulazione per affermare ciò in cui, con le dovute e necessarie eccezioni, non ha mai creduto; il secondo, il popolo, diventando vittima della sua ignavia se non di un apatico abbandono.
Ma non solo. Se è vera l’osservazione di Marco Revelli, per la quale la politica sembra aver riprodotto ormai senza controllo il male da cui dovrebbe proteggerci, disordine, violenza e paura, e le masse, aggiungo io, si rivolgono alle buone stelle gialle nella speranza che non diventino ben presto piccole nane rosse o bianche, allora dovremmo affermare che la politica ha perso negli anni la sua funzione pedagogica. La conseguenza di tale assenza è l’aver costretto l’italiano ad ologrammarsi nei social, o dotandosi di un proprio avatar, nel tentativo, a suo uso e consumo ed ignaro di tale sforzo, di dimostrare come e in che misura possa esistere una coscienza di nazione. Tutto questo, ha messo in discussione come la fine di quella funzione educativa di una politica sempre più distratta se non assente, tranne laddove si tende ipocritamente a difendere posizioni personali piuttosto che sociali.
Una deriva impietosa che, nell’archiviazione della “Prima” Repubblica realizzata da una certa magistratura ha ostacolato ogni riforma al rialzo giocando a ricostruire, si fa per dire, un Paese, ma investendo sul ribasso delle qualità degli italiani; questi ultimi, resi funzionali, politicamente, a una logica di conquista post-proletaria del potere, o trasformati in consumatori del vuoto culturale grazie alla creazione di telemarketing dove tutto è mercato: dai beni alla vita privata del cittadino. Un’operazione dettata da una visione padronale, tra pubblico e privato, delle vite altrui promossa da un berlusconismo oggi ben rappresentato, sotto mentite spoglie, da una sinistra tutt’altro che socialista e meno che mai riformista. Ecco, allora che nella confusione delle parti politiche e nella liquidità delle parti sociali mancano punti di riferimento comuni. Si è trasformato il Paese in una versione non solo lillipuziana in politica estera, ma si è dato corso a una rivisitazione quasi ironica di un’Italia dei balocchi nel quale barattare il facile successo o distribuire bonus a debito futuro ha creato spazi per Pinocchi e Lucignoli solo apparentemente di diverso colore.
L’idea di nazione, concordando con Anthony D. Smith (The Ethnic Origins of Nations, Oxford, Basil Blackwell, 1986) cui ci si riferisce, è vista come il risultato di un processo e di un percorso premoderno, preindustriale laddove essa prefigura l’esistenza possibile di uno Stato, quale conseguenza, nell’assumersi il ruolo di contenitore di sentimenti condivisi, dove l’idea di Nazione rappresenterebbe il supposto etico, morale, culturale e storico della Patria. La trasformazione della Nazione in Patria e, in Stato, quindi, non è un risultato scontato: tutt’altro. Esso implica una consapevolezza diffusa che ogni parte dello spazio fisico e ogni piccolo angolo dell’intima coscienza di un popolo sia tale da riconoscere ogni individuo, ogni pensiero parte di un grande disegno: quello di sentirsi, percepirsi, Nazione. È questa, forse, la migliore risposta a un globalismo omologante, che tende a normalizzare valori e tradizioni, a standardizzare comportamenti e gusti in nome di una semplificazione dei processi economici resi più semplici solo perché più redditizi, meno costosi socialmente, ma più governabili per le oligarchie asseritamente democratiche. In questo c’è allora la ragione della necessità della Nazione dal momento che, come avvertiva Rudolf Kjellén all’inizio del Novecento
«[…] Individui e nazione importano più dello Stato. La nazione sopravvive alla scomparsa dello Stato, ma lo Stato perde ogni speranza di rinascere se scompare la nazione […].»
Ecco, allora, che la storia dell’Italia, agli occhi di un contemporaneo, non è altro che la biografia di una nazione non giunta a piena maturità culturale se non politica, mentre economicamente i percorsi sono stati diversi e a volte anche buoni, ma li abbiamo persi lungo la strada del tempo. Senza voler invadere il campo di una vasta storiografia investigativa che pone l’accento sulle cause storiche di una nazione al centro delle vicende continentali – tipicamente riconducibili ai grandi player della Guerra Fredda, oggi nuovamente al banco dei pegni europeo con la crisi in Ucraina, e dei potentati economici angloamericani – è vero che tra “leghe”, “fratelli”, “italoforzisti”, “democrat” e “grilli parlanti”, l’Italia di oggi sembra restare uno spazio geografico piuttosto che politico. Uno spazio che, ben oltre le complessità geopolitiche che ci hanno travolto nel tempo, sembra accontentarsi di vivere in un eterno gossip, alimentato da una falsa etica del giornalismo dettata dal consumo dei costumi in ragione degli spazi pubblicitari da vendere, piuttosto che guardare al di là del proprio limite egoistico. Un Paese dove si tende ormai a mercificare ogni intima convinzione, dove si vuole, e ad arte, privare il cittadino di riferimenti educativi e sociali se non rispondenti ai desiderata della mediocritas al potere, dove ogni espressione di un patrimonio di saggezza o di esperienza viene gettata al macero della vita perché troppo esperta per poter cadere nella trappola delle facili lusinghe di un’idea consumistica dell’esistenza.
Torino, 31 marzo 2022
Giuseppe Romeo (Benestare, 23 dicembre 1962) è un analista politico, pubblicista e accademico. Ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Laureato in Giurisprudenza, Scienze politiche e Scienze Strategiche, ha tenuto, a vario titolo, lezioni e seminari in Diritto dell’Unione Europea, Storia dei trattati e Politica internazionale, Analisi della Politica estera, Relazioni internazionali, Studi strategici. Alle precedenti collaborazioni universitarie, si aggiungono quelle più recenti in Storia delle Relazioni internazionali. Ha pubblicato: La Russia postimperiale. La tentazione di potenza (Con Alessandro Vitale, 2009); Un solo Dio per tutti? Politica e Fede nelle religioni del Libro (con Alessandro Meluzzi, 2017); Da Vienna a Parigi, Gli ultimi giri di valzer. La Grande Guerra, la Conferenza di pace e l’ordine mondiale. Storia di un’Europa sconfitta (2021); Guerre ibride. I volti nuovi del conflitto (2021).