Dal 1979, quando il potere temporale e spirituale dell’ayatollah Ruhollah Khomeini spodestò lo Scià e un apprezzabile laicismo, le proteste popolari sono state numerose. In queste circostanze, le donne hanno sempre avuto un ruolo determinate e attivo, rappresentato dalla loro massiccia presenza e dai loro gesti in ogni occasione di ribellione, dove hanno trascinato anche gli uomini, dimostrando di essere sempre un “passo più avanti”.
La cosa certa è che l’Iran del 2022 non è più quello del 1979. La situazione economica e sociale, lasciata da Reza Palavi, si è lentamente e gradualmente deteriorata, sia nelle zone rurali che negli affollati centri urbani. Strumentalmente, il cupo regime attribuisce le cause del degrado socio-economico ai vari embarghi statunitensi, ma la realtà è che l’Iran è fallito con le “forze” proprie. Dopo il 1979, il regime si è accanito contro la parte “viva” della società. La libertà di esprimersi, sotto tutti i suoi aspetti, anche sessuali, è stata repressa, con la massima violenza, con condanne e torture: per gli omosessuali l’impiccagione, per i giornalisti si sono aperte le prigioni.
Dal 16 settembre, inizio della rivolta in Iran, secondo il Cpj, Comitato per la protezione dei giornalisti, sono stati arrestati almeno cinquantuno reporter. Dieci (al momento) sono stati liberati e sono in attesa di giudizio. Tra i giornalisti finiti dietro le sbarre anche alcune donne, come Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi, accusate dai due “oscuri” servizi segreti del ministero dell’Intelligence e delle Guardie Rivoluzionarie di spionaggio al soldo degli Usa. Gli attacchi riguarderebbero alcune azioni di sobillamento esercitate sui familiari di Mahsa Amini, la ragazza curda morta dopo l’arresto da parte della polizia morale ed emblema delle repressioni del regime.
Queste oppressioni, con la loro dose di cinismo e brutalità, stanno contribuendo alla trasformazione dei movimenti di protesta in un movimento politico. Questa fisiologica “metamorfosi” apre a una nuova fase, dove una generalizzata insurrezione respinge direttamente Khomeini e combatte contro gli strumenti di repressione, come le milizie paramilitari dei bassidji, il braccio più sporco delle Guardie Rivoluzionarie. In Iran, i manifestanti aumentano giornalmente di numero e con loro cresce anche l’audacia nel rappresentare il dissenso. Ed è proprio questo atteggiamento che demarca un concreto cambiamento dei rapporti tra la protesta e il regime.
Spesso i manifestanti non hanno timore a togliere il turbante ai mullah, per poi postare i loro gesti su Internet. Molti giovani provengono dalle numerose università e dai college iraniani. Ricordo che l’iraniana Maryam Mirzakhani, una matematica laureatasi alla Sharif technological university di Teheran, nel 2014 fu la prima studiosa in Scienze matematiche al mondo a essere premiata con la prestigiosa Medaglia Fields che equivale, come riconoscimento, al Nobel.
È così che il movimento di protesta sta assumendo una connotazione più articolata e completa: agli attori iniziali – giovani donne – si sono affiancati gli uomini, poi le studentesse e gli studenti delle scuole superiori. In questi ultimi giorni, sono soprattutto gli uomini a fronteggiare i bassidji, esponendosi alle aggressioni del regime. E alcuni trovano anche la morte. Le grida e gli slogan sono “morte al dittatore!” e “abbasso i bassidji”. Ormai l’insubordinazione è diffusa e la radicalizzazione della protesta si accentua. Il regime teocratico, oggi, deve affrontare le manifestazioni che strategicamente si sviluppano a rotazione nelle ventiquattro ore. È una generazione, quella che sta protestando, che sta assumendo sullo scenario iraniano ruoli di primo piano: giovani e giovanissimi che rappresentano un movimento sociale che sta logorando il regime. Così, agiscono anche di notte, in modo da non essere identificati dai bassidji e dalle forze dell’ordine. Gli uomini prendono sempre più spesso iniziative durante le manifestazioni, al fine di risparmiare alle donne arresti, maltrattamenti o la morte violenta.
Questa mutazione, inizialmente timida, è diventata ormai una certezza. Come sta subendo una metamorfosi costruttiva il movimento innescato dalle donne iraniane. Anche il regime degli ayatollah, nato come teocratico, si è gradualmente trasformato in plutocratico, poi cleptocratico e da tempo tanatocratico – semplicisticamente una personificazione della morte – in una escalation capovolta diretta verso anacronistiche profondità tiranniche.
La cosa certa è che l’Iran del 2022 non è più quello del 1979. La situazione economica e sociale, lasciata da Reza Palavi, si è lentamente e gradualmente deteriorata, sia nelle zone rurali che negli affollati centri urbani. Strumentalmente, il cupo regime attribuisce le cause del degrado socio-economico ai vari embarghi statunitensi, ma la realtà è che l’Iran è fallito con le “forze” proprie. Dopo il 1979, il regime si è accanito contro la parte “viva” della società. La libertà di esprimersi, sotto tutti i suoi aspetti, anche sessuali, è stata repressa, con la massima violenza, con condanne e torture: per gli omosessuali l’impiccagione, per i giornalisti si sono aperte le prigioni.
Dal 16 settembre, inizio della rivolta in Iran, secondo il Cpj, Comitato per la protezione dei giornalisti, sono stati arrestati almeno cinquantuno reporter. Dieci (al momento) sono stati liberati e sono in attesa di giudizio. Tra i giornalisti finiti dietro le sbarre anche alcune donne, come Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi, accusate dai due “oscuri” servizi segreti del ministero dell’Intelligence e delle Guardie Rivoluzionarie di spionaggio al soldo degli Usa. Gli attacchi riguarderebbero alcune azioni di sobillamento esercitate sui familiari di Mahsa Amini, la ragazza curda morta dopo l’arresto da parte della polizia morale ed emblema delle repressioni del regime.
Queste oppressioni, con la loro dose di cinismo e brutalità, stanno contribuendo alla trasformazione dei movimenti di protesta in un movimento politico. Questa fisiologica “metamorfosi” apre a una nuova fase, dove una generalizzata insurrezione respinge direttamente Khomeini e combatte contro gli strumenti di repressione, come le milizie paramilitari dei bassidji, il braccio più sporco delle Guardie Rivoluzionarie. In Iran, i manifestanti aumentano giornalmente di numero e con loro cresce anche l’audacia nel rappresentare il dissenso. Ed è proprio questo atteggiamento che demarca un concreto cambiamento dei rapporti tra la protesta e il regime.
Spesso i manifestanti non hanno timore a togliere il turbante ai mullah, per poi postare i loro gesti su Internet. Molti giovani provengono dalle numerose università e dai college iraniani. Ricordo che l’iraniana Maryam Mirzakhani, una matematica laureatasi alla Sharif technological university di Teheran, nel 2014 fu la prima studiosa in Scienze matematiche al mondo a essere premiata con la prestigiosa Medaglia Fields che equivale, come riconoscimento, al Nobel.
È così che il movimento di protesta sta assumendo una connotazione più articolata e completa: agli attori iniziali – giovani donne – si sono affiancati gli uomini, poi le studentesse e gli studenti delle scuole superiori. In questi ultimi giorni, sono soprattutto gli uomini a fronteggiare i bassidji, esponendosi alle aggressioni del regime. E alcuni trovano anche la morte. Le grida e gli slogan sono “morte al dittatore!” e “abbasso i bassidji”. Ormai l’insubordinazione è diffusa e la radicalizzazione della protesta si accentua. Il regime teocratico, oggi, deve affrontare le manifestazioni che strategicamente si sviluppano a rotazione nelle ventiquattro ore. È una generazione, quella che sta protestando, che sta assumendo sullo scenario iraniano ruoli di primo piano: giovani e giovanissimi che rappresentano un movimento sociale che sta logorando il regime. Così, agiscono anche di notte, in modo da non essere identificati dai bassidji e dalle forze dell’ordine. Gli uomini prendono sempre più spesso iniziative durante le manifestazioni, al fine di risparmiare alle donne arresti, maltrattamenti o la morte violenta.
Questa mutazione, inizialmente timida, è diventata ormai una certezza. Come sta subendo una metamorfosi costruttiva il movimento innescato dalle donne iraniane. Anche il regime degli ayatollah, nato come teocratico, si è gradualmente trasformato in plutocratico, poi cleptocratico e da tempo tanatocratico – semplicisticamente una personificazione della morte – in una escalation capovolta diretta verso anacronistiche profondità tiranniche.
Non dobbiamo lasciare sole le donne iraniane . Queste donne piene di coraggio, pronte a ribellarsi alla tirannia islamica che le vuole silenti, sottomesse, rassegnate, ed invece sono state in grado di risollevare la testa e rivendicare il proprio ruolo, la propria identità, la parità con l’uomo che dal 1979 non ba fatto altro che schiacciarle e relegarle nell’ombra. Noi donne e uomini occidentali abbiamo il dovere di sostenerle, di non farle sentire sole. Abbiamo l’obbligo di far capire all’islam che il tempo dell’oscurantismo è finito. Volenti o nolenti gli uomini islamici non hanno al loro fianco delle capre, ma degli esseri umani al pari di loro. Noi donne occidentali non smetteremo mai di sostenerle con il nostro amore e la nostra sconfinata solidarietà. Ersilia Lia Barracca