MARCELLO VENEZIANI: “Proust, in retromarcia nel Novecento”

Come mai un autore così profondamente retrò, demodè, che odora di tanfo antico come Marcel Proust viene celebrato così tanto nei nostri giorni? Cos’è che lo rende intrigante agli occhi dei contemporanei? C’è un diluvio di prousterie in libreria… Mucchi di opere dedicate a lui, per il centenario della sua morte, avvenuta come oggi. Eppure lui non anticipò il nostro tempo ma posticipò l’ottocento, si attardò nell’infanzia e nei ricordi, si tenne alla larga dai tumulti e dalle passioni del secolo; visse da cagionevole in una stanza foderata per ripararsi dai fragori dell’epoca, coltivò il dettaglio, l’aroma antico, l’odore domestico e il vago sentore d’oriente; uscì di rado, intabarrato nel suo pastrano, e solo di notte, quando la vita frenetica del giorno si fermava. Non ci sono guerre, rivoluzioni, eventi e conquiste nelle sue pagine; nessuna catastrofe eguaglia per lui la perdita di sua madre, “la mia vita ormai ha perso il suo unico scopo, la sua sola dolcezza, il suo unico amore”.

Eppure Proust affascina questo spaesato tempo, perduto nel presente, ingoiato nell’indaffarato oblio. Proust coltiva la gigantografia del dettaglio, coglie la sfumatura e il riflesso, indugia sui fiori, sull’arredo, sui particolari delle persone. E’ introspettivo, predilige la penombra, è tutt’altro che globale, ama il particolare. Non c’è la Storia nella sua opera; solo il pallido, marginale riflesso ad personam.

Proust ha percorso in retromarcia il ‘900 e ha guardato il mondo dallo specchietto retrovisore. E’ andato incontro all’800, lo ha rianimato nel pieno fervore modernista e futurista del suo tempo. Fuori infuriava il futuro, splendeva il Sol dell’Avvenire, si cantava la bellezza della macchina e delle officine, delle masse e della velocità, i Balli Excelsior e l’euforia del progresso… Ma dentro la sua stanza foderata di sughero non arrivavano gli spasmi della modernità e le sue frenesie; il viaggio si compiva nella mente innamorata. Un tempo la nostalgia era il sentimento doloroso della lontananza da casa o dai cari, così era stata diagnosticata da medici e letterati; con Proust invece traslocava dallo spazio al tempo e si faceva nostalgia del tempo perduto. Non che prima di Proust non vi fossero rimembranze e ricordanze, per alludere a fior di poeti; ma è con Proust che la nostalgia si curva minuziosa sul tempo perduto. Proust stesso avverte che l’euforia per i vagoni in corsa che infervora il primo Novecento è destinata a scemare perché poi si torna ad amare la bellezza di Venezia, quella Venezia passatista vituperata da Marinetti (che poi morì proprio lì).

Non manca in Proust la vena ironica come in Oscar Wilde; ma Wilde è un Proust estroverso, ama la brillante superficialità di chi vuol stupire. Wilde ama il paradosso, che è una verità invertita e divertita, condotta all’eccesso, senza l’implacabile indagine introspettiva di Proust. Di lui condivide la voluttà della scrittura, non la filigrana né la lente. Infatti quando i due s’incontrarono, si annusarono ma non si presero, non scattò nessuna affinità.

Si possono cogliere tre versanti della Ricerca proustiana: la curvatura del tempo, il passato che riaffiora nel presente; il ponte che unisce in un cammino introverso la luce della realtà all’antro recondito dell’anima, in quel luogo oscuro denominato psiche dove sorgono le idee e i sentimenti. E infine la scoperta che le cose sono animate; liberate dall’inerzia del loro esistere banale, vibrano di ricordi allusivi (effetto madeleine), sono materia vivente. Le cose parlano in Proust, sussurrano a chi sa ascoltare. Una rivoluzione straordinaria. Proust si ritrova con Freud e con Bergson e anche con Nietzsche, con la fisica teorica e con l’inconscio di Jung, non quello collettivo e archetipico ma puerile e a volte prenatale. Con Henri Bergson, Proust era anche lontano parente, era stato al suo matrimonio con una sua cugina; si vedevano ogni tanto a cena, fu memorabile per un testimone una loro conversazione sull’insonnia.

Nella ricerca proustiana del tempo perduto, la morte di chi ti è caro o lo svanire del passato, tra i dolori che arreca, dona però un piacere: quel che resta nella memoria degli affetti è un ricordo selettivo, il meglio che merita di essere salvato, la sintesi gloriosa o squisita di quel che fu. Non il suo lato noioso, banale o negativo. La morte screma la vita, l’assenza depura la presenza dal peso della quotidianità. Resta il fior fiore delle persone, dei fatti e dei ricordi. Folgorante è la sua intuizione sull’oblio, che preserva nelle sacche della memoria involontaria la realtà più autentica del passato. E ce la restituisce in uno di quegli agguati che il passato tende al presente appostandosi dietro l’angolo e riapparendo a sorpresa.

“I veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti”. L’alchimia di Proust, la sua ars regia, fu quella di trasformare il passato in mito, sottraendolo al tempo e alle sue amnesie. Poi verranno i proustiani di maniera, anzi i proustatici, per la loro faticosa minzione dei ricordi; troppe rozze, stantie madeleine intinte nella tazza di Proust…“e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene”, parafrasando Dante. Il tempo è una beffarda misura che patisce gli inganni e poi si dissolve davanti al maestoso fluire dei ricordi.

Alla fine, la vera vita per Proust è nella letteratura. Egli cerca l’eterno nel fiore dell’istante e nel suo ricordo vivo che si fa scrittura. E viaggiando, prima di cercare nuovi paesaggi, esorta a munirvi di nuovi occhi per un’altra visione del mondo. Invece il viaggiatore globale trova l’uguale dappertutto e non ha occhi per vedere; gli basta documentare tutto col suo smartphone, al puro scopo di attestare che lui c’era. Il contrario di Proust, che raccontando spariva dalla scena. La magia di sostituire il narratore col lettore. E lasciar parlare le cose, le atmosfere, gli sguardi.

La Verità – 18 novembre 2022

Proust, in retromarcia nel Novecento

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