ilmattino.it, 27 dicembre 2022 – Da quasi vent’anni l’Accademia della Crusca, nata a Firenze tra il 1582 e il 1583 e da allora antico e moderno punto di riferimento della lingua italiana, considera importante che la Costituzione aggiunga sette parole in uno dei suoi primi articoli: «La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano».
Già lo dicono le leggi e le sentenze della Corte Costituzionale. Ma non lo dice la nostra Carta fondamentale. Perché sarebbe, invece, giusto affermarlo anche lì?
«Perché darebbe più forza a una realtà di per sé assolutamente evidente», spiega Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca da nove anni .
«Già nel 2006 una nostra delegazione composta da Sabatini, Maraschi e Coletti si presentò in un’audizione parlamentare per spiegare l’importanza dell’inserimento in Costituzione. E nel 2018 una relazione parlamentare citava proprio la posizione della Crusca, che definiva opportuno e auspicabile il riferimento in Costituzione», dice il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini
Tutti i Paesi europei di lingua neo-latina fanno menzione della lingua nazionale in Costituzione. Quale può essere, secondo lei, il modello più interessante per l’Italia?
«Il senatore Roberto Menia ha da poco presentato un disegno di legge che somma il modello francese a quello spagnolo. Dice che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (come in Francia) e che tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla (come in Spagna). Entrambi i modelli sono nati in funzione difensiva. La Francia l’ha introdotto nel 92 per tutelarsi rispetto all’Europa che si apriva e all’invadenza dell’inglese come lingua europea. La Spagna lo ha fatto per garantire il ruolo del castigliano di fronte alla forte presenza di minoranze linguistiche. Io credo, e lo dico come spunto per riflettere, che il nostro approccio non debba essere difensivo, intimorito dall’aggressione dell’inglese o dai particolarismi, ma propositivo. Trovo perciò che il modello portoghese sia il più originale».
Che cosa la convince dell’esempio portoghese?
«Che il riferimento alla lingua sia inserito nei compiti fondamentali dello Stato, fra i quali rientra, appunto, l’assicurare l’insegnamento e la valorizzazione permanente, difendere l’uso e promuovere la diffusione internazionale della lingua portoghese. Un compito attivo, di promozione. Che compare fra quelli di garantire l’indipendenza nazionale e i diritti di libertà».
Rispetto alle altre Nazioni-sorelle noi siamo i soli a non tradurre o rendere in italiano molte delle parole che provengono dall’inglese. Nella sanità la dose di richiamo è battezzata booster. Come spiega questo atteggiamento di sudditanza e di provincialismo da parte di chi rappresenta una lingua così antica, bella e ricca come l’italiano?
«Trattandosi di vaccinazioni la questione è ancor più delicata. Scegliere parole oscure per il popolo italiano non è vantaggioso: è una sciocchezza. Dipende da una evidente carenza scientifico-tecnologica di chi dimentica il suo modello. Nessun medico con radici umanistiche userebbe il booster per esortare gli italiani al richiamo. Dobbiamo riscoprire la fiducia nella nostra lingua. Tradurre è anche un modo per riflettere. Diceva Umberto Eco: la lingua dell’Europa è la traduzione».
Che cosa si può fare per pretendere che almeno le leggi vengano scritte in un buon italiano, anziché coi piedi?
«Farle rivedere dall’Accademia della Crusca. Ma in parte veniamo già consultati, per esempio dal comitato delle pari opportunità della Corte Cassazione per il linguaggio di genere e la chiarezza nella comunicazione sociale».
Però in Spagna la Real Academia è un punto di riferimento imprescindibile per la lingua spagnola. Perché alla Crusca non si riconosce un ruolo analogo in Italia? O siete voi troppo timidi nel farvi avanti?
«In certi momenti anch’io avrei auspicato questo potere pubblico per l’Accademia ma, col senno del poi, dico che forse ci avvantaggia dare consigli, anziché imposizioni. Io stesso, influenzato dall’indicazione dell’Académie française, all’inizio mi ero intestardito con ingenuità nel dire la Covid. Ma la lingua è nelle mani dei popoli. E gli italiani hanno decretato il Covid».
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