L’elezione diretta del capo dello Stato o del premier è una tentazione antica e proibita del nostro Paese. Se ne parla ormai da più di mezzo secolo. Ora, con una maggioranza presidenzialista di centro-destra e un leader come Giorgia Meloni, sembra davvero possibile realizzarla. Ne parlava Randolfo Pacciardi già negli anni sessanta, la vagheggiavano i presidenzialisti della Dc nei primi anni settanta; ne parlava Almirante con la sua destra nazionale. Presidenzialista fu pure Craxi, e sul piano teorico, Gianfranco Miglio e il gruppo di Milano la teorizzavano negli anni ottanta. Come “il sindaco per l’Italia”, lanciato da Mario Segni su ispirazione di Mario Baldassarri. Un vago ma persistente presidenzialismo attraversò il Polo delle libertà, tra Berlusconi e Fini, ma fu un tema più da campagna elettorale che da riforma effettiva. Nasceva un bel ministero per le riforme costituzionali, una bella commissione bicamerale e tutto finiva là. L’unico presidenzialismo che passò fu quello “figurativo”: fermo restando il sistema parlamentare, si indicava a fianco delle liste il candidato premier alla guida del Paese.
In modo contraddittorio e altalenante da sinistra ci furono aperture all’elezione diretta. Ma l’obiezione principale era la storia e l’indole italiana, la tentazione di un capo carismatico con rischio autoritario. In realtà il modello era la repubblica semi-presidenziale francese, varata da De Gaulle o l’esperienza consolidata degli Stati Uniti. L’idea di salvaguardare il ruolo super partes del capo dello Stato e puntare sul premier eletto dal popolo, più equilibrata sulla carta, non ha però funzionato in Israele. Il ripiego alternativo, anche ora, è la sfiducia costruttiva, di marca tedesca; ovvero si può far cadere il governo solo se c’è un governo sostitutivo.
Le obiezioni sono sempre le stesse: la riforma presidenziale non è una priorità per il nostro paese, ci sono altre cose più urgenti; anzi la proposta è ritenuta un alibi, una diversione e una suggestione elettorale. Però l’elezione diretta del capo dell’esecutivo piace alla maggioranza degli italiani.
Ora, a mio parere, bisogna partire non da una petizione di principio ma dall’osservazione della realtà. E domandarci: cosa serve per rendere più governabile il paese, più stabile il governo, più diretto e fiduciario il rapporto tra governati e governati? Indubbiamente il presidenzialismo risponde, almeno sulla carta, a questi requisiti, sottrae i governi al ricatto di correnti, capetti e partiti minori, genera maggiore stabilità, porta a compimento il sistema bipolare, delinea ruoli e responsabilità di maggioranza e opposizione.
Naturalmente la condizione è che la riforma si inserisca in un quadro bilanciato di poteri: una maggiore efficacia del potere legislativo, ossia un ruolo più incisivo del parlamento e un sistema di contrappesi equilibrato, che eviti l’uomo solo al comando.
Con queste precauzioni, la riforma presidenziale ci pare un passo avanti. Ma con la stessa onesta franchezza, bisogna considerare tre cose. La prima: se facciamo una simulazione retroattiva dell’elezione diretta del capo dell’esecutivo, chi avrebbero votato gli italiani nei decenni scorsi, dalla seconda repubblica in poi? I candidati più popolari sono stati Tonino Di Pietro, Silvio Berlusconi, Beppe Grillo (o un grillino nel periodo fortunato dei Cinque Stelle); Matteo Renzi nel breve arco di grande popolarità. Sarebbero state scelte migliori, rassicuranti? I dubbi sono legittimi. La popolarità è una condizione necessaria, ma non sufficiente.
La seconda osservazione è nel merito: una repubblica presidenziale darebbe maggiori garanzie di sovranità nazionale, popolare, politica? Un presidente eletto dal popolo avrebbe potuto avere una posizione diversa per esempio in tema di politica estera, alleanza atlantica, Nato e guerre varie? Avrebbe potuto discostarsi dalla cosiddetta linea Draghi in economia? Avrebbe potuto assumere posizioni diverse rispetto alle direttive dell’Unione europea e ai suoi diktat? Temo di no. Il presidente eletto dal popolo non avrebbe fatto diversamente.
E inquieta l’idea di varare un contrappeso al potere centrale dell’esecutivo con un leader forte, eletto dal popolo, rafforzando la spinta al decentramento, perseguita dalla Lega e in particolare dal suo apostolo Calderoli, in tema di autonomia differenziata delle Regioni; a mio parere sarebbe uno sciagurato punto di non ritorno nella frantumazione dello Stato, dell’unità, della coesione e della sovranità nazionale. E’ infatti realistico immaginare che il sostegno al progetto presidenziale della Meloni possa essere subordinato da parte leghista alla realizzazione di quel progetto di destrutturazione definitiva dello Stato italiano, ben oltre i danni prodotti già dalla modifica del titolo V della Costituzione.
Insomma, sono queste le riserve pratiche e politiche in tema di presidenzialismo. A conferma che le riforme non devono solo ubbidire a un principio formale o a un’astratta norma giuridica ma devono essere poi calate nella realtà del paese, nei rapporti di forza esistenti, tra i leader che realmente avrebbero la possibilità di vincere le elezioni presidenziali e nelle concrete possibilità di incidere degli eletti in tema di decisioni, sovranità e garanzia dell’indipendenza nazionale. Se si è consapevoli di questi rischi o inconvenienti, e se si riescono a prevenirli o almeno a contenerli, si può tentare l’impresa…
(Panorama n.22)