Tu dici Giambattista Vico, e subito ti rispondono: «Ah, corsi e ricorsi storici». Che lui eppure ha detto, ma che sia l’unica cosa che in genere se ne sappia è altro discorso. Fino a far arrabbiare uno studioso come Marcello Veneziani: ma come, parliamo del più importante filosofo della storia d’Italia, e noi ce la risolviamo così? Che del grande napoletano sia innamorato, Veneziani lo dichiara subito. Fino a dedicargli una biografia (Vico dei miracoli, Rizzoli, pag. 238, euro 20). Che, anche questo incredibile ma vero, è la prima che sul gigante meridionale sia stata finora scritta (tranne qualche sparuta nota di qua e di là). Gli sarebbe andata meglio se fosse stato un moderno influencer qualsiasi. E invece, sentite qui. Se si considera l’Italia dal Medioevo, poi cresciuta nell’Umanesimo, e poi nel Rinascimento, quindi nel Barocco di Giambattista (1668-1744), per infine arrivare al Risorgimento e al Novecento, non c’è pensatore che abbia lasciato più tracce e aperto più vie. Con molte di queste vie ancora colpevolmente da percorrere. Roba da fare al più presto, visto lo smarrimento esistenziale e morale che viviamo. Insomma, dice Veneziani, abbiamo risposte pret-à-porter e continuiamo a vagare senza abbeverarci a una fonte perenne. Perché, nonostante il fiume di secoli e di autori, figuriamoci, Vico comunque «grandeggia, anzi primeggia, precorre tempi e pensieri, lascia impronte destinate a fruttare». E «semina intuizioni che ciberanno pensieri e pensatori del futuro, non solo italiani».
Un valore assoluto. Il fatto è che non è che il buon Vico (e Veneziani con lui) se la possa prendere solo con gli immemori posteri. Sarà che non avesse le physique du role, il fisico giusto. Sarà che fosse nu poco pedante. Sarà che a sentirlo esci con la capa ‘mbrogliata. Sarà che avesse nu brutto carattere. Sarà che viveva come un meschinello. Sarà che, attraversando ogni mattina Spaccanapoli secco e bassolino col bastone appuntito, sembrava uno scartellato. Sarà che fosse tanto perseguitato quanto sopportato e preso in giro, con una vita piena di stenti, fra miseria e famiglia numerosa e indegna di lui, ma u professore non è che fosse riconosciuto prima e rimpianto dopo. Anche se gli fecero due funerali con la salma rimandata a casa, non riuscendo a decidere quanto onore o quanto sospiro di sollievo gli dovessero. Corsi e ricorsi, appunto, se si vuole scherzare sulla grande verità di una storia che non procede in verticale ma si arrotonda in una spirale riproponendosi continuamente su piani più alti.
Con piglio del cantastorie pari al rigore scientifico, in una versione pop e sudista, Veneziani ce ne racconta miseria e nobiltà in un romanzo popolare, l’opposto del linguaggio ampolloso figlio del tempo ma francamente indigesto del suo genio incompreso. Lo segue nella Napoli seconda città europea del tempo, fra Pulcinella, il lotto e la tombola, la fondazione del teatro San Carlo, i femminielli e le vaiasse, i presepi, le leggende e gli scazzamurielli. A Vico dei miracoli si sono ispirate tutte le grandi culture nazionali (liberali, socialcomuniste, nazionalfasciste, cattoliche) del Novecento in chiave anti-totalitaria. E per quanto riguarda l’Italia, Vico «è il crocevia del pensiero che parte dalle radici profonde della cultura mediterranea, greca e latina e cristiana».
Ma ancora. Vico, continua Veneziani, «intuisce le origini favolose e poetiche dell’umanità, intreccia ragione e filosofia, tradizione e modernità, visione cristiana e visione classica – ciclica e pagana – della storia». E così «disegna una teologia civile, risale alle fonti della religione e infine ritrova nelle vicende umane, storiche e mondane» una mente superiore e benevola che ci guida, una Provvidenza protagonista della Scienza Nuova, la sua opera fondamentale. Quella Provvidenza che non fu clemente con lui. E che lo contrappose alla successiva ondata cartesiana e illuministica (napoletana per giunta) con l’azzardo di una religione cattolica che «produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare l’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante». E Francia compresa.
Allora diteci, sembra dire Veneziani, se non è attualità questa. E diteci se non gli abbiano fatto soffrire il suo «politicamente scorretto», addirittura l’antichità classica meglio del razionalismo per la vita quotidiana. Diteci perché sia invece studiato in tutto il mondo. La sua scienza globale che registra e spiega i cicli storici attraverso i quali le società sorgono e cadono. Magari meglio di una intelligenza artificiale ci potrebbe dire che ne sarà del nostro Occidente mortificato e impaurito. Magari ci insegna a rivalutare il nostro Sud avendo egli intuito (anche questo) «la via mediterranea alla modernità», altro che solo velocità e produttivismo. Fu suo, in fondo, il concetto dell’«eterogenesi dei fini»: le conseguenze storiche rovesciano le intenzioni originarie. Vico ebbe fama solo quando per lui («agitato e afflitto») stava calando la notte. Ma il suo pensiero non tramonta: «vita oscura di un luminoso pensatore», conclude Veneziani. E benedetto sia averla rischiarata forse nel momento giusto per tutti.