Per vent’anni e forse più, alla fine dello scorso millennio, Gianni Vattimo è stato il filosofo italiano più conosciuto nel mondo. Il pensiero debole, espressione coniata da lui e da Pier Aldo Rovatti, era diventata la sintesi e l’emblema della filosofia nell’epoca del postmoderno, del riflusso e della società nichilista, in cui la tecnica e il mercato sono i soggetti forti. Vattimo era una star, soprattutto nei paesi di lingua spagnola. Poi con gli anni Vattimo è stato via via cancellato dai grandi consessi filosofici, ma anche politici e mediatici, è sparito dai giornali e dai grandi circuiti culturali, editoriali e accademici, considerato quasi uno scandalo.
Cosa era successo? Era diventato, a suo dire, “filopalestinese e antisionista”, aveva sposato “la causa dei popoli che si ribellano all’imperialismo”; antiatlantico e anticapitalista, comunista dopo la caduta del comunismo e cristiano dopo il declino della fede, nel segno della difesa dei poveri. Negli ultimi anni, condivideva col pensiero conservatore l’idea che Papa Francesco fosse rimasto “l’ultimo comunista” in occidente; ma per lui era un merito del pontefice, e un motivo di speranza. Aveva criticato il pensiero unico della globalizzazione e la democrazia sorvegliata. Aveva criticato il tribunale di Norimberga permanente che misura “l’accettabilità delle filosofie”, nel nome della filosofia anglo-americana. Si era spinto perfino a toccare il tabù dei tabù, l’Olocausto. Tanti anni fa avevo polemizzato con lui in un’opera, Processo all’Occidente, perché lo ritenevo uno dei pensatori organici del nichilismo globale. Curioso pensare che col tempo Vattimo sia diventato antioccidentale e abbia sposato alcune delle critiche che rivolgevo a lui… Ma sin da allora Vattimo era stato uno dei più originali interpreti di Nietzsche e di Heidegger, costeggiando autori per molti versi proibiti.A quel punto calò il sipario su Vattimo, e prevalse il silenzio sulla sua opera, l’esclusione dai giornali e dal mainstream. Anche i necrologi alla sua morte sono stati d’obbligo e di circostanza, rivolti al suo passato e reticenti sulla sua mutazione.Prima della svolta, Vattimo era un pensatore che rispecchiava, pur con qualche eresia, lo spirito del nostro tempo, la società globale senza confini, la difesa dell’occidente libertario e del “nichilismo gaio” (definizione di Augusto Del Noce), la liberazione sessuale e omosessuale, proteso a dimezzare le verità (Mezze verità intitolò un suo libro più pop) e a indebolire le pretese forti del pensiero e della fede. Era convinto che nell’idea di verità si annidasse già la violenza e che le guerre di religione fossero barbare: ma quelle di interesse, mosse dalla supremazia economica e ideologica o animate dalla scatenata volontà di potenza non lo sono ugualmente?In quel tempo Vattimo era convinto che si potessero sconfiggere gli integralisti riuscendo “a ‘corrompere’ sempre più le masse del Terzo Mondo spingendole a produrre e a consumare, cioè a modernizzarsi”. Questo pensiero era funzionale all’establishment occidentale e alla sua “mission”; e Vattimo era perciò il filosofo omogeneo al mainstream globale, anello di congiunzione tra il capitalismo e lo spirito radical.Ma Vattimo proveniva dal pensiero di Luigi Pareyson e da un’originaria formazione cattolica; leggeva Nietzsche e il suo Oltreuomo, come egli per primo aveva tradotto il Superuomo; leggeva Heidegger e la sua critica della tecnica e del pensiero calcolante che oblia l’Essere; leggeva René Girard e il nesso tra la violenza, il rito e il sacro; oltrepassava la modernità, di cui annunciava la fine e criticava la perentoria certezza che il nuovo fosse per definizione positivo e superiore a ciò che lo precede. Al cambiamento radicale corrispose anche una mutazione nella parabola politica e parlamentare, prima radicale, dem, poi neo-comunista.Vattimo non ritrovò più il Dio cristiano, ma pensò alla sua ombra, rintracciando nell’epoca dell’ateismo pratico e della secolarizzazione galoppante le impronte lasciate nel mondo e nel pensiero. Alla fine sciolse il suo originario cristianesimo in un blando politeismo dei valori contro ogni pretesa universalista e contro l’impero della forza che sprigiona violenza e cagiona sofferenza e insofferenza. Il pensiero restò debole nelle sue affermazioni ma forte nelle sue negazioni.Negli ultimi tempi si è parlato di Vattimo solo per l’amara vicenda del suo badante e fidanzato brasiliano, da cui volevano privarlo con la forza della legge, contro la volontà dello stesso filosofo. Vattimo difendeva la sua libertà di decidere da chi farsi assistere e a chi donare i suoi beni; era ancora lucido, almeno in parte.Lo ricordo anni fa in un viaggio fatto insieme in Argentina, dove Vattimo teneva affollate conferenze nei nostri convegni. E dove una sera, al termine della visita all’Istituto italiano di cultura di Buenos Aires, il nostro pullman stava partendo lasciando a terra Emanuele Severino e Vattimo. Vidi dal vetro posteriore del bus i due filosofi correre come ragazzini per raggiungere il pullman. Arrivò prima Severino: il pensiero forte dell’eterno vinse la gara col pensiero debole in affanno.Alla fine Vattimo tornò al suo maestro Pareyson sostenendo che “la filosofia non è altro che ermeneutica dell’esperienza religiosa”, che egli come il suo maestro riduceva a mito. E il mito, diceva, non è una conoscenza oggettiva. Alla fine al pensatore debole restò tra le mani, fragile, effimera e sfuggente, una mezza verità.(Panorama, n.40)
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