MARCELLO VENEZIANI: “Elogio dell’asino”

Ho trascorso un pomeriggio, una controra assolata di aprile, in una masseria pugliese a guardarci negli occhi e a studiarci con un’asina. Si chiamava Nina, dal pelo grigio-biondino e aveva nei suoi occhi qualcosa di arcaico, di naturale e di soprannaturale, superstite di un mondo perduto. Gli asini sono stati a lungo i più assidui compagni di vita e di lavoro. Ora sono spariti, incompatibili con l’età della tecnica. Abitavano il mondo magico delle origini, durato fino alla nostra infanzia, ne portavano il peso; oggi sembrano portarne il lutto. Antichi mezzi di locomozione e di trasporto merci, antenati delle moto e delle utilitarie, dei carrelli della spesa e dei trolley. 
Animale evangelico, l’asino portò sul suo dorso il Figlio di Dio, nel giorno delle Palme, e pure sua Madre. Il suo raglio, sgraziato come il suo destino, la sua schiavitù senza riscatto, la fatica infinita come l’ingratitudine nei suoi confronti. 
Figurava nelle favole di Esopo e di Fedro, si faceva asino d’oro nelle Metamorfosi di Apuleio; era con Zarathustra alla festa dell’asino, lui faceva il verso e ragliava I-A, che sarebbe poi diventato l’acronimo dell’Intelligenza Artificiale. A scuola, l’alunno ottuso e ignorante era definito somaro; due orecchie d’asino crebbero a Pinocchio quando disertò la scuola. La maestra, che insegnava l’umiltà, ci chiamava asinelli quando cominciavamo una frase con Io: “Io asino primo”, diceva; quell’I-O era per lei una variante del suo raglio e una spia della nostra presunzione. Anche il prof diceva che fare lezioni a noi studenti svogliati e disinteressati era come “un lavativo in culo al ciuccio”, cioè un’impresa inutile. Disprezzando le popolazioni dure di comprendonio, Federico II così motteggiava i sudditi di una cittadina pugliese: “gens bitontina tota asinina”. 
Incapace di scegliere, l’asino finiva col morire perché non sapeva se prima sfamarsi o dissetarsi. E’ il paradosso di Buridano, usato da tanti filosofi, da Aristotele a Spinoza. L’asino veniva perfino accusato di bullismo vigliacco, sferrando un calcio al leone morente. Asino espiatorio, più del capro, caricarono sulla sua groppa e sulla sua fama troppi vizi e negatività degli umani. Lo adottò come simbolo il Napoli calcio, che un tempo aveva il cavallo, nobile retaggio del Regno borbonico. Ma la squadra, cent’anni fa, andava male e allora sorse la diceria che il suo testimonial più appropriato fosse il ciucciarello di Fechella, un venditore ambulante che aveva un somaro malridotto e scorciato. Ma col tempo il ciuccio diventò portafortuna per la squadra e fu amato come mascotte. 
Anni fa sull’isola di Santorini ebbi un’avventura con un asino. Per salire dal porto al borgo non c’era che un mezzo, l’asino. Asini greci, per giunta; più antichi, più cocciuti e mitici degli altri, forse più astuti, più levantini. Montai sull’asino con qualche iniziale riluttanza che il somaro avvertì. Faceva un caldo feroce, e la povera bestia non se la sentiva di salire ancora una volta lungo il tortuoso cammino. Allora decise di farmela pagare. Faceva le curve larghe, strisciando il parapetto. Quando c’era il precipizio rasentava il burrone, per istigarmi al suicidio o per spaventarmi. Quando il tornante volgeva all’interno radeva la roccia per farmi strusciare la gamba e lacerarmi la gamba e il pantalone grigio-asino. A nulla valevano i tentativi di raddrizzarlo con le briglie, gli appelli e le mazzate. Alla fine, quando smontai dal suo dorso, emise un raglio di felicità liberatoria, a cui feci eco anch’io, adeguandomi al suo linguaggio. Fu la sua lotta di classe e di liberazione contro noi odiati turisti e parassiti. La sua gioia era l’assenza momentanea di fatica. Non chiedeva piacere, solo riposo. Gli asini, di notte, sognano altre notti. 
I somari sono cavalli che non ce l’hanno fatta o che non si sono montati la testa. Il mulo tentò una mediazione equa, anzi equina. L’asino ricorda Poppea che faceva il bagno nel latte d’asina e Gina Lollobrigida popputa sull’asinello in Pane amore e fantasia. Gli asini portavano sul dorso i doni della terra. Ricordano le strade fuori dal tempo, gli alberi a cui si attaccavano per interminabile tempo, i silenzi della campagna divorata dal sole e animata dal vento. Vivono nei proverbi antichi, metafore viventi della stupidità umana. Gli asini svegliano l’eros in campagna, dove chi s’imboscava era “arrapato a ciuccio”. Evocano gli déi, sono figure mitologiche a cui la scomparsa dal mondo ha donato la grazia ulteriore dell’invisibile. Portatore ignaro di una sapienza che traspare dal suo sguardo ebete ma misterioso. Il suo fiato nella mangiatoia fu il primo climatizzatore dell’umanità, riscaldò Gesù e famiglia. Fu il primo strumento tecnologico, la prima scuola guida per donne e ragazzi prima di passare al cavallo; una specie di veicolo senza targa, di bassa cilindrata, rispetto alla berlina equina. E’ stato l’animale più utile e più maltrattato, più prezioso e più vilipeso, insieme al maiale. Ridicolizzato sul piano estetico, etico e intellettuale. Quanta santa modestia in quelle orecchie lunghe e basse: auribus demissis, dicevano i latini. 
Ai bambini quando andava una bevanda di traverso, le mamme dicevano per far sollevare loro la testa: vedi l’asino che vola? Per non soffocare, anche ora dovremmo alzare lo sguardo e stupirci per l’asino che vola. Gli asini volano davvero, quando non li vede nessuno. Avevano conoscenze altolocate per via del presepe e ora che sono spariti dalla terra, se ne sono andati in cielo. Perché di loro che hanno patito in silenzio e servito in umiltà, è il regno dei cieli.

(Panorama, n.18)

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