A fine settembre del 1988 fu pubblicato il romanzo satirico, di Salman Rushdie, “I versi satanici”. In quel periodo, il mondo arabo era reduce dalla guerra, terminata ad agosto, tra Iran e Iraq, tra sciiti iraniani e sunniti iracheni, anche se il settanta per cento degli iracheni è di confessione sciita. La guida era del sunnita Saddam Hussein, il conflitto causò almeno un milione di morti da ambo le parti.
L’opera di Rushdie ebbe una vasta risonanza e fece esplodere le ire in Gran Bretagna e nel subcontinente indiano, sua terra di origine. In queste regioni, migliaia di musulmani contestarono il libro che, secondo loro, era un “insulto” al profeta Maometto. Questo romanzo non fu mai ufficialmente tradotto in arabo. Le sue rare e frammentate traduzioni circolavano, sotto una cappa e clandestinamente, in formato abbreviato. L’appello ad assassinare Rushdie (fatwa), anche supportato da una robusta taglia, ha creato due posizioni nette nella popolazione musulmana. La prima che ha attecchito in una fascia sociale legata al dogmatismo, ed è quella che ha favorito la “caccia al blasfemo”; l’altra che ha trovato espressione in una fascia sociale più analitica e tendenzialmente laica, più colta e generalmente più aperta al dialogo. Ma questa tolleranza nella libertà di espressione narrata da molti scrittori arabi li ha messi in una posizione di critica e sono stati, a loro volta, regolarmente attaccati dai regimi fondamentalisti e autoritari per essersi opposti alle posizioni oltranziste dei loro connazionali, che ritenevano gli scritti immorali.
L’aggressione a Rushdie del 12 agosto da parte del 24enne “radicalizzato” Hadi Matar, questa volta, ha sollevato proteste in quella parte del mondo musulmano che rifiuta di riconoscersi nei principi che hanno portato l’attentatore a minare la vita dell’autore del libro. Il 16 agosto, oltre duecento personalità di religione islamica appartenenti alla società civile algerina, tunisina, marocchina e dell’immigrazione nordafricana in Europa, in un forum pubblico – dove erano presenti varie testate giornalistiche francesi e arabe – hanno denunciato l’aggressione commessa contro Salman Rushdie. Personalità indipendenti, di associazioni e organizzazioni, che hanno espresso la condivisione, con tutta l’umanità, dei valori universali della vita, dell’uguaglianza tra gli esseri umani, delle libertà fondamentali dei popoli, dei gruppi e degli individui senza discriminazioni o esclusive. Solo per citarne alcuni ricordo Mokhtar Trifi, presidente onorario della Lega tunisina per i diritti umani (Ltdh); Adel Abderezak, membro del movimento Hirak e attivista per i diritti umani; Souhayr Belhassen, presidente onorario della Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh); Yadh Ben Achour, membro del Comitato per i diritti civili e politici delle Nazioni Unite; l’algerino Madjid Benchikh, ex preside della facoltà di giurisprudenza; Nadia Chaabane, membro dell’Assemblea nazionale costituente; Ihsane El Kadi, giornalista; Driss El Yazami, presidente della Fondazione euro-mediterranea per il sostegno ai difensori dei diritti umani; Latifa Lakhdar, storica, ex ministro della Cultura tunisino; Messaoud Romdhani, attivista del Comitato per il rispetto delle libertà e dei diritti umani in Tunisia (Crldht).
Queste personalità hanno dichiarato il rifiuto che il crimine sia in nome della religione a cui appartengono, considerando un dovere denunciare l’odiosa aggressione commessa contro lo scrittore, in nome di un “Islam deformato, che può placare i suoi seguaci assetati di sangue solo attraverso l’odio, il sangue, la morte e il caos”. In più, hanno affermato di non tacere su queste infamie commesse in nome dell’Islam, patrimonio di civiltà comune all’umanità, che non ammette un mediatore, rifiutandosi di mescolare la cultura, i valori umani dell’Islam e i propri nomi con queste persone furiose, che seminano terrore e disonore, mettendo a tacere con la spada e il crimine ogni voce discordante, ogni libero pensiero, ogni creazione culturale, ogni respiro innovativo, ogni differenza e tutta la diversità. Hanno poi affermato che la loro battaglia la conducono da tempo nei propri Paesi, affinché le libertà di coscienza, pensiero, religione, culto, espressione, creazione letteraria, culturale e artistica siano riconosciute e rispettate.
Affermazioni dissonanti con le espressioni di fanatismo isterico che spesso vengono divulgate come fossero l’unica voce del popolo musulmano, ma anche una voce di speranza in un contesto spesso contaminato e sostenuto da scarsa o mancante “conoscenza”. Molto probabilmente, se il 14 febbraio 1989 l’Ayatollah Ruhollah Khomeini non avesse lanciato una fatwa contro Salman Rushdie, “I versi satanici” nel mondo arabo sarebbero potuti passare inosservati. Mentre oggi, dopo l’attentato, il libro sta avendo un nuovo incremento di vendite. Il solito paradossale conflitto tra dogma e ragione.
L’opera di Rushdie ebbe una vasta risonanza e fece esplodere le ire in Gran Bretagna e nel subcontinente indiano, sua terra di origine. In queste regioni, migliaia di musulmani contestarono il libro che, secondo loro, era un “insulto” al profeta Maometto. Questo romanzo non fu mai ufficialmente tradotto in arabo. Le sue rare e frammentate traduzioni circolavano, sotto una cappa e clandestinamente, in formato abbreviato. L’appello ad assassinare Rushdie (fatwa), anche supportato da una robusta taglia, ha creato due posizioni nette nella popolazione musulmana. La prima che ha attecchito in una fascia sociale legata al dogmatismo, ed è quella che ha favorito la “caccia al blasfemo”; l’altra che ha trovato espressione in una fascia sociale più analitica e tendenzialmente laica, più colta e generalmente più aperta al dialogo. Ma questa tolleranza nella libertà di espressione narrata da molti scrittori arabi li ha messi in una posizione di critica e sono stati, a loro volta, regolarmente attaccati dai regimi fondamentalisti e autoritari per essersi opposti alle posizioni oltranziste dei loro connazionali, che ritenevano gli scritti immorali.
L’aggressione a Rushdie del 12 agosto da parte del 24enne “radicalizzato” Hadi Matar, questa volta, ha sollevato proteste in quella parte del mondo musulmano che rifiuta di riconoscersi nei principi che hanno portato l’attentatore a minare la vita dell’autore del libro. Il 16 agosto, oltre duecento personalità di religione islamica appartenenti alla società civile algerina, tunisina, marocchina e dell’immigrazione nordafricana in Europa, in un forum pubblico – dove erano presenti varie testate giornalistiche francesi e arabe – hanno denunciato l’aggressione commessa contro Salman Rushdie. Personalità indipendenti, di associazioni e organizzazioni, che hanno espresso la condivisione, con tutta l’umanità, dei valori universali della vita, dell’uguaglianza tra gli esseri umani, delle libertà fondamentali dei popoli, dei gruppi e degli individui senza discriminazioni o esclusive. Solo per citarne alcuni ricordo Mokhtar Trifi, presidente onorario della Lega tunisina per i diritti umani (Ltdh); Adel Abderezak, membro del movimento Hirak e attivista per i diritti umani; Souhayr Belhassen, presidente onorario della Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh); Yadh Ben Achour, membro del Comitato per i diritti civili e politici delle Nazioni Unite; l’algerino Madjid Benchikh, ex preside della facoltà di giurisprudenza; Nadia Chaabane, membro dell’Assemblea nazionale costituente; Ihsane El Kadi, giornalista; Driss El Yazami, presidente della Fondazione euro-mediterranea per il sostegno ai difensori dei diritti umani; Latifa Lakhdar, storica, ex ministro della Cultura tunisino; Messaoud Romdhani, attivista del Comitato per il rispetto delle libertà e dei diritti umani in Tunisia (Crldht).
Queste personalità hanno dichiarato il rifiuto che il crimine sia in nome della religione a cui appartengono, considerando un dovere denunciare l’odiosa aggressione commessa contro lo scrittore, in nome di un “Islam deformato, che può placare i suoi seguaci assetati di sangue solo attraverso l’odio, il sangue, la morte e il caos”. In più, hanno affermato di non tacere su queste infamie commesse in nome dell’Islam, patrimonio di civiltà comune all’umanità, che non ammette un mediatore, rifiutandosi di mescolare la cultura, i valori umani dell’Islam e i propri nomi con queste persone furiose, che seminano terrore e disonore, mettendo a tacere con la spada e il crimine ogni voce discordante, ogni libero pensiero, ogni creazione culturale, ogni respiro innovativo, ogni differenza e tutta la diversità. Hanno poi affermato che la loro battaglia la conducono da tempo nei propri Paesi, affinché le libertà di coscienza, pensiero, religione, culto, espressione, creazione letteraria, culturale e artistica siano riconosciute e rispettate.
Affermazioni dissonanti con le espressioni di fanatismo isterico che spesso vengono divulgate come fossero l’unica voce del popolo musulmano, ma anche una voce di speranza in un contesto spesso contaminato e sostenuto da scarsa o mancante “conoscenza”. Molto probabilmente, se il 14 febbraio 1989 l’Ayatollah Ruhollah Khomeini non avesse lanciato una fatwa contro Salman Rushdie, “I versi satanici” nel mondo arabo sarebbero potuti passare inosservati. Mentre oggi, dopo l’attentato, il libro sta avendo un nuovo incremento di vendite. Il solito paradossale conflitto tra dogma e ragione.