In Italia «l’esercizio» del diritto di voto «è un dovere civico», ma il voto non è obbligatorio e non esercitare il diritto di voto non è sanzionabile. Per la Corte Costituzionale «il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico […]».

Erudizioni Legali, 23 Settembre 2022 – La legge può arginare il problema dell’astensionismo in Italia? Il voto è un diritto, ma quali sono i confini del «dovere civico»? In passato i legislatori hanno lottato contro la scarsa partecipazione elettorale: vediamo i possibili scenari, tra sanzioni e pubbliche forme di biasimo.
Il sempre più alto indice di astensionismo a ogni tornata elettorale in Italia rimanda, spesso, alla necessità di accorgimenti normativi che possano fare da diga a questa ondata, più che negativa, per un sistema che voglia definirsi liberal-democratico.

L’ordinamento, però, conobbe in passato alcuni piccoli, se non blandi, accorgimenti affinché si considerasse l’astensionismo come una forma, sicuramente, non fisiologica della vita democratica del Paese o che comunque non risultasse pienamente combaciante con la terminologia di «dovere civico», coniata per l’art. 48, comma 2, della Costituzione. Dicitura che è e rimane frutto di un compromesso, che ha visto i Costituenti interrogarsi sulla necessità di mantenere ampia e forte la partecipazione al voto.

Fu la prima Sottocommissione per la Costituzione nel novembre del 1946 a proporre questo testo in seno alla Costituente e vide contrapposti gli orientamenti dei due relatori per l’articolo, Umberto Merlin (Dc) e Pietro Mancini (Psi) sulla natura del «dovere civico».

L’idea di Merlin fu quella di rendere con l’espressione molto forte, definendo il voto come un «dovere pubblico» in modo da avvicinare l’elettorato attivo a una maggiore perentorietà. Viceversa, Pietro Mancini, su suggerimento di Aldo Moro (Dc), propose di rendere la formula meno stringente e più lontana dai canoni del voto obbligatorio, coniando la formula del «dovere civico e morale del cittadino», poi adottata dalla Sottocommissione.

Al momento del voto sarebbero poi risultati, ai fini dell’approvazione finale dell’Assemblea, decisivi gli interventi di Lelio Basso (Psi) e di Roberto Lucifero D’Arpigliano (Blocco nazionale delle Libertà, poi Partito Liberale): quest’ultimo manifestò il suo dissenso per l’inserimento del termine «morale» per evitare ambiguità sulla vera ratio dell’articolo, ossia di indirizzare e non di obbligare il legislatore e la società in generale a farsi carico di esso. Basso propose di votare contro la qualifica del diritto come dovere civico in quanto avrebbe altresì indotto gli interpreti a considerare il diritto come un dovere mascherato.

Nella seduta Plenaria del 21 maggio 1947 vennero ripresi proprio questi ultimi indirizzi critici sul testo, coniato dalla Sottocommissione. Mortati (Dc) propose di abbinare le qualifiche di «civico» e «morale» non direttamente al diritto di voto, ma bensì al suo «esercizio»: l’emendamento venne approvato e la discussione proseguì nel merito con un importante intervento dello stesso Mortati su come qualificare i doveri civici.

L’Assemblea sposò l’idea mortatiana di rendere il voto come un
«[…] dovere, che è politico, nel senso di dovere attinente all’esercizio di attività che toccano gli interessi pubblici […].»

L’intervento si concluse con la ripresa di alcune indicazioni di Lucifero d’Arpigliano e Lelio Basso sul fatto che il legislatore potrà valutare l’opportunità di eventuali sanzioni, che si intenderanno come non obbligate e che non dovranno essere sproporzionate. Si costituirono, così, le basi della ratio dell’articolato (vennero infatti respinti i successivi emendamenti volti a indicare l’obbligatorietà del voto e vennero votati quelli a favore dello stralcio del termine «morale»), che avrebbe portato, infine, all’attuale formulazione: «[…] il suo esercizio è dovere civico […]».

Il legislatore ci provò comunque a inserire alcune sanzioni: art. 4, comma 2 e 115 del D.P.R. n.361 del 30 marzo 1957. Se, da un lato, l’articolo 4 tentò di dissuadere i cittadini da pulsioni astensionistiche definendo che «l’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese», d’altro canto l’art. 115 si propose di introdurre una sorta di «sanzione disciplinare».

Questa si scolpì molto sulla base delle vecchie note di biasimo per i pubblici dipendenti, dichiarando che il mancato esercizio del diritto di voto avrebbe comportato l’onere di segnalare la motivazione del non voto al Sindaco del luogo del seggio. Qualora non vi fosse stata alcuna segnalazione e/o il motivo non fosse stato considerato giustificato, il Sindaco avrebbe provveduto a iscrivere il nome del non partecipante all’albo comunale per la durata di un mese. In aggiunta, i certificati di «buona condotta» avrebbero indicato la menzione «non ha votato» verso la specifica chiamata alle urne.

Questa disposizione venne abrogata nel 1993 da uno dei decreti legislativi a margine della complessiva riforma del sistema elettorale italiano, inaugurata dalla Legge Mattarella.

Apparato “sanzionatorio”, che ha vissuto epoche (quasi geologiche) diverse in cui il tasso di partecipazione al voto non era considerato un problema. Interessante, però, la considerazione su alcuni meccanismi di computo dei votanti ai fini della validità del voto, che interessarono la legislazione regionale sulle lezioni locali del Friuli Venezia-Giulia agli inizi degli anni Duemila.

La Corte nel rigettare il ricorso del Governo in via principale sentenziò che «[…] in presenza della prescrizione dello stesso art. 48, secondo cui l’esercizio del diritto di voto «è dovere civico», il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico […]».

È su quest’ultimo punto, sottolineato dalla Consulta, che si gioca la permanenza o meno di disposizioni che incentivino sull’obbligatorietà o meno del voto. Se il non partecipare assume un significato solo sul piano socio-politico, evidentemente il legislatore, per quanto rimanga libero di legiferare o meno, potrebbe trovare sterile proseguire sulla via delle sanzioni per i non votanti.
In Europa, il Belgio (obbligo costituzionalizzato all’art. 62, comma 2 “Le vote est obligatoire et secret), la Grecia e il Lussemburgo adottano il sistema di voto obbligatorio, mentre al di fuori del Vecchio Continente è noto il caso australiano che impone una sanzione pecuniaria di circa 20 dollari australiani e la gran parte dei Paesi dell’America Latina, che hanno usato questo strumento di sostegno alla partecipazione democratica per tentare di livellare le gravi disparità sociali ivi presenti.

Obbligo di voto o astensionismo? La perentorietà di un dovere civico

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